Luchino Galli, blogger e mediattivista, intervista Andrea Fumagalli, professore associato di economia politica all’Università di Pavia.
Andrea, tra gli economisti italiani sei uno dei maggiori esperti di reddito minimo garantito; sei anche vicepresidente di BIN Italia. Di cosa si occupa e perché è nata quest’associazione?
Il Bin (Basic Income Network Italia) è costituito da sociologi, economisti, filosofi, giuristi, ricercatori, liberi pensatori che da anni si occupano di studiare, progettare e promuovere interventi indirizzati a sostenere l’introduzione di un reddito garantito in Italia. A tal fine è stato ideato un sito come strumento per l’aggregazione delle idee. Ne è risultato un network di competenze diverse che muovono però nella medesima direzione, sotto un «logo comune», quello del “BIN Italia”, perché comune è l’obiettivo: giungere all’introduzione di un Basic Income per tutti.
Il confronto nazionale ed internazionale sul reddito di cittadinanza (Basic income) ha conosciuto un vibrante sviluppo ed al tempo stesso uno straordinario arricchimento. Il ragionamento collettivo sul tema ha trovato ulteriori connotazioni negli anni nei quali sono divenute egemoni condizioni e modalità produttive che in genere vengono riassunte nell’espressione “biocapitalismo cognitivo” o, più generalmente, “post-fordismo”. Il Basic income è diventato, in questo modo, il fulcro attorno al quale diveniva possibile ridisegnare il nuovo statuto delle garanzie non solo del lavoro, ma della cittadinanza. Il reddito di esistenza, come è stato spesso definito il Basic Income, pone la questione centrale su cosa siano oggi, a fronte delle trasformazioni sociali e globali, i diritti sociali; cosa significa garanzia di un livello socialmente decoroso di esistenza e della possibilità di scelta e di autodeterminazione dei soggetti sociali. Il dibattito italiano ha goduto di una forte varietà di riferimenti e di ottiche di lettura che bene fa comprendere la sua originalità e ricchezza. È stata centrale, in questo dibattito, proprio l’analisi delle trasformazioni produttive degli ultimi decenni, in particolare l’emergere della condizione precaria come condizione generale del lavoro, la cui indagine rappresenta il contributo forse più interessante che il dibattito italiano può offrire al contesto internazionale.
Cosa si intende per reddito minimo garantito? È possibile darne una definizione? Qual è la tua idea di reddito minimo garantito per il nostro Paese?
Il reddito minimo garantito è un reddito di base incondizionato (RBI), dato a livello individuale, ai residenti (e non solo ai cittadini), incondizionato (ovvero non sottoposto a nessun obbligo), pagato dalla fiscalità generale e non dai contributi sociali. Non è una misura assistenziale, in quanto è reddito primario, cioè è reddito che remunera un’attività produttiva di valore, che è l’attività di vita, che solo in parte oggi, sulla base delle leggi vigenti, è certificata come lavoro e quindi remunerata. Il RBI remunera quella parte di vita produttiva che non viene considerata tale (apprendimento, formazione, mobilità/trasporto, riproduzione, consumo). È una misura di welfare (sicurezza sociale) che parzialmente esiste in tutti i paesi dell’Unione europea eccetto Italia e Grecia: un sostegno economico alle persone con un lavoro intermittente o disoccupate.
Varia da poche centinaia di euro ai 1.200 al mese della Danimarca e Lussemburgo. In Italia dovrebbe essere come minimo di 720 euro al mese (20% in più della soglia di povertà relativa). Oggi, ammortizzatori sociali come la cassa integrazione o il sussidio di disoccupazione sono riservati a chi ha perso un lavoro a tempo indeterminato e determinato; il RBI invece dovrebbe essere dato a tutte le persone che hanno un reddito inferiore ai 720 euro/mese, per esempio ai precari tra un contratto e l’altro, ai disoccupati e ai lavoratori/trici che pur impiegati/e guadagno salari da fame, inferiori ai 720 euro/mese, in modo incondizionato, ovvero slegato sia dal tipo di contratto precedente che dall’obbligo di accettare qualsiasi impiego proposto o i programmi di inserimento lavorativo.
Il ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e dei Trasporti Corrado Passera ha dichiarato: “Se non si guarda solo ai disoccupati ma anche a chi non cerca più il lavoro o chi ha un lavoro, ma un reddito insufficiente, parliamo di 6-7 milioni di persone, e con i familiari forse si arriva alla metà del nostro Paese”. Chi potrebbe beneficiare del reddito minimo garantito e come trovare le risorse per finanziarlo?
In realtà, secondo le indagini statistiche condotte dalla Caritas e dalla Commissione Parlamentare contro la povertà e l’esclusione sociale, coloro che si trovano nel 2011 ad avere un reddito individuale al di sotto della soglia di povertà relativa ammontano a circa 8 milioni e mezzo di persone.
Secondo i nostri calcoli, una misura di RBI di 720 euro/mese, necessita poco meno di 35 miliardi. Al netto dei sussidi oggi esistenti di uguale entità (pensioni sociali e di invalidità, sussidi di disoccupazione, indennità e casse integrazioni), le risorse da aggiungere sono pari a 15,7 miliardi. Una cifra abbordabile che dovrebbe essere a carico della collettività (e non finanziata dai contributi sociali dell’Inps, come avviene oggi). I dati sono contenuti nei Quaderni di San Precario e sul sito Bin.
Il sistema fiscale si basa sulla tassazione dei fattori produttivi. Oggi si tassano solo il lavoro dipendente (tanto), la proprietà delle macchine (poco) e il consumo (molto). Ma ci sono ben altri fattori produttivi: la finanziarizzazione, la conoscenza, lo spazio. Si potrebbero tassare le transazioni finanziarie, anche solo per lo 0,01%; i diritti di proprietà intellettuale; i grandi patrimoni immobiliari che lucrano sugli spazi delle città. Ma anche l’uso delle forme contrattuali atipiche: ad esempio, introducendo l’Iva sull’intermediazione di lavoro effettuato dalle agenzie interinali. E poi ci sono le spese da sopprimere come gli aerei da guerra F35 che la Difesa sta acquistando per 15 miliardi di euro.
Si parla molto di patrimoniale. Una sua introduzione porterebbe da sola nelle casse dello Stato più di 10 miliardi. In altre parole, la questione non è di fattibilità ma di volontà politica. E non abbiamo nemmeno citato l’evasione fiscale… Comunque, per un approfondimento del tema fiscale e per un’analisi delle possibili proposte in materia, rimando al n. 3 dei Quaderni di San Precario che esce proprio in questi giorni e al sito del Bin – Italia.
Nell’Unione europea il reddito minimo garantito è una realtà consolidata, ma tre Stati membri non l’hanno istituito: Italia, Grecia e Ungheria. A Tuo avviso, perché le forze politiche e sociali italiane sono così poco sensibili all’introduzione di questo istituto nel nostro ordinamento giuridico?
La ragione principale è che siamo in presenza di un deficit culturale. Una proposta di RBI viene ritenuta non a caso politicamente inaccettabile dalla classe imprenditoriale ma incontra difficoltà anche nel campo sindacale. I primi la considerano una misura sovversiva nella misura in cui essa è in grado di ridurre la ricattabilità dal bisogno e dalla dipendenza del lavoro, con la possibilità di mettere in crisi la subalternità del lavoro al capitale. Per i secondi, credo che purtroppo nella maggior parte dei casi vi sia ancora troppa diffidenza verso la proposta del reddito di base. Essa viene ritenuta politicamente inaccettabile in quanto proposta sovversiva nella misura in cui contraddice quell’etica del lavoro su cui parte dei sindacati stessi continua a basare la propria esistenza. La possibilità di rifondare una politica sindacale autonoma e adeguata ai processi di accumulazione di oggi sta nel comprendere che, nel contesto economico attuale, produzione e riproduzione sono interconnesse, la distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale tende a essere meno rilevante, tempo di lavoro e tempo di vita tendono a mischiarsi: lo dimostra il fatto che dopo un secolo di riduzione, l’orario di lavoro negli ultimi trent’anni ha ricominciato a crescere. La lotta per il reddito e per un nuovo welfare interviene direttamente dentro le condizioni di lavoro come premessa per incidere sulla stessa organizzazione del lavoro, sul tempo di lavoro, sul livello di ricattabilità e subordinazione che fanno dipendere il lavoro dal capitale. Non c’è più separazione tra politiche del lavoro e politiche di welfare. Esse sono due facce della stessa medaglia. E oggi, più di ieri, la lotta per un nuovo welfare è strumento diretto di regolazione del mercato del lavoro e di miglioramento della condizione lavorativa.
Il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Elsa Fornero ha dichiarato: “L’Italia è un paese ricco di contraddizioni, che ha il sole per nove mesi l’anno, e con un reddito di base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro”. Andrea, non ritieni invece che il reddito minimo garantito possa costituire un elemento propulsivo e un’opportunità per l’economia e la società italiana?
Assolutamente sì. E ciò vale proprio per le condizioni del lavoro oggi, dove sempre più le facoltà cognitive e relazionali sono messe al lavoro (e a valore). Ciò darebbe impulso a quella cooperazione e produttività sociale che sta oggi alla base della creazione di valore, favorendo un miglior sfruttamento dell’economia di apprendimento e di rete.
Per un approfondimento al riguardo occorre inizialmente domandarsi il significato del termine “lavoro”. L’idea di “lavoro” fa riferimento alla libera espressione della capacità e della creatività umana (nel qual caso sarebbe meglio usare il termine “opera”) o invece si fa riferimento a quel lavoro che si è costretti ad accettare (appunto “coercitivo”) perché non vi sono alternative se non il ricatto e la miseria (dal latino labor = fatica). Quando si parla di catena di montaggio, di lavoro in fabbrica o in un call center o in un ufficio a imputare dati su dati, non si parla di “opera”, ma più prosaicamente di “lavoro”: un lavoro che non dà nessuna dignità umana, ma solo asservimento. La favola del lavoro che nobilita l’uomo viene dall’antica Grecia, quando per lavoro (nel senso di opera) si intendeva otium, ovvero la possibilità di coltivare i propri interessi (il concetto di “gioco”).
Oggi è solo schiavitù, in quanto finalizzato a creare valore in modo alienato per pochi. Non è un caso che l’attività umana in quasi tutte le lingue e tradizioni dei popoli del mondo si esprime con due termini: uno significa fatica, dolore, tortura (travail, lavoro, trabajo, labour, arbeit, ecc.), l’altro significa scelta, vita activa, produzione artistica (opus, opera, ouvre, work, werke, ecc.).
E’ dal capitalismo (ma direi anche prima, dalla nascita del protestantesimo) che l’idea di attività umana come dolore, fatica, tortura, schiavismo, asservimento è diventata l’unica vera attività lavorativa (la cd. “etica del lavoro”), con la scusa che bisogna contribuire alla società (leggasi, ai profitti e alle rendite di pochi). A più di trent’anni dai movimenti degli anni Settanta che teorizzavano e predicavano il rifiuto del lavoro salariato (e che tanto hanno influito sulla mia formazione politica), è disperante osservare come l’attuale arretratezza culturale (presente anche all’interno della sinistra e della pratica sindacale) non sia in grado di fare questa distinzione fondamentale e si focalizzi ancora sulla richiesta di riconoscere la dignità dello stesso lavoro salariato.
Ridurre il grado di coercizione al lavoro, proprio perché si riduce la ricattabilità al bisogno, aumenta il diritto alla scelta e quindi la libertà e l’autonomia degli individui (diritto alla scelta del lavoro, non diritto al lavoro tout court!): due elementi che vanno a braccetto con l’ampliamento dei diritti sociali e delle stesse garanzie del lavoro. E farebbero bene anche al sistema economico, come antidoto per uscire dalla crisi attuale.
In Italia c’è chi sostiene sia più realistico, data l’attuale congiuntura economica, estendere e potenziare il sistema di ammortizzatori sociali esistenti piuttosto che introdurre il reddito minimo garantito. Cosa pensi di questo orientamento e qual è la Tua valutazione in merito al nuovo sistema di ammortizzatori sociali contemplati dalla riforma del mercato del lavoro Monti-Fornero?
Il giudizio è molto negativo. La riforma si muove in un’unica direzione: abolire quegli ammortizzatori sociali che sono a carico del bilancio dello Stato, con l’ovvio obiettivo di fare cassa. Indennità di disoccupazione e di mobilità e la Cassa Integrazione Straordinaria (dal 2014) saranno abolite a favore dell’introduzione dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego (Aspi), che entrerà a regime ben nel 2017 e che verrà finanziata con i contributi sociali (in particolare con l’aumento dell’aliquota contributiva dell’1,4% a carico dei contratti a termine). Rimarranno in vigore, sino al 2017, la Cassa Integrazione Ordinaria (già oggi a carico della contribuzione sociale) e la Cassa in deroga, finché saranno esigibili i finanziamenti stanziati a livello europeo e oggi utilizzati dalle regioni (e che il governo si limita ad auspicare che diventino strutturali). La nuova assicurazione sociale potrà essere usufruita dai lavoratori dipendenti (quindi non dai parasubordinati e dagli “autonomi”), dagli apprendisti e dagli artisti, purché siano stati garantiti due anni di anzianità assicurativa e 52 settimane di lavoro nell’ultimo biennio (art. 23). Rimangono così inalterati quei parametri di accesso già oggi in vigore per il sussidio di disoccupazione e che tagliano fuori da qualsiasi forma di sostegno al reddito la maggior parte dei precari. Sarà pari al 75% della retribuzione fino a 1.150 euro e al 25% oltre questa soglia, per un tetto massimo, comunque, di 1119 euro lordi al mese. La durata dell’Aspi viene estesa dagli attuali 8 mesi (12 per gli over 50) a 12 mesi (18 per gli over 55), ma sarà a scalare con una riduzione nella misura del 15% dopo i primi sei mesi di fruizione e di un ulteriore 15% dopo il dodicesimo mese di fruizione (art. 24). Per rendere più digeribile questa pillola amara, nel periodo di transizione, è prevista una mini-Aspi, applicabile ai giovani lavoratori, con parametri di accesso più favorevoli: sono infatti necessarie almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi. L’indennità verrà calcolata in maniera analoga a quella prevista per l’Aspi. La durata massima dell’istituto sarà però pari alla metà delle settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi, ultimi 12 mesi, detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo (art. 28). Rimangono però esclusi le varie forme di collaborazioni e altre tipologie precarie di lavoro.
Personalmente penso che occorra una drastica rimessa in discussione degli attuali ammortizzatori sociali, che vada verso la creazione di un unico ammortizzatore sociale, appunto il RBI. Troppe sono le distorsioni, le iniquità e l’impraticabilità di accesso di quelli attuali. Alcune precondizioni potrebbero essere utili:
• La separazione tra assistenza e previdenza, ovvero tra fiscalità generale a carico della collettività e contributi sociali, a carico dei lavoratori e delle imprese (Inps). In altre parole, la somma che finanzia il reddito di base non deve derivare dai contributi sociali, ma piuttosto dal pagamento delle tasse dirette e indirette e dalle entrate fiscali generali dello Stato, relative ai diversi cespiti di reddito, qualunque sia la loro provenienza. Il reddito di base incorpora, sostituisce e universalizza gli attuali iniqui, parziali e distorsivi ammortizzatori sociali, non più da contabilizzare nel bilancio Inps ma all’interno del bilancio dello Stato (Legge Finanziaria nazionale e regionale). In tal modo, si riducono i contributi sociali (per la quota relativa agli ammortizzatori sociali), con l’effetto di far aumentare i salari e ridurre il costo del lavoro per le imprese.
• La costituzione di un bilancio autonomo di welfare. Occorre costituire e definire un bilancio suo proprio, dove vengono contabilizzate tutte le voci di entrata e di uscita, ovvero le fonti di finanziamento e le voci di spesa. La legge quadro 328/2000 di “riforma del welfare locale”, unitamente ad altre disposizioni legislative precedenti (in particolare il D.L. 31 marzo 1998, n. 112), consente tale innovazione, anche grazie alla possibile costituzione di un Osservatorio Regionale sul Welfare, che abbia come compito il monitoraggio della spesa sociale e la sua efficacia, l’analisi della composizione della ricchezza, della struttura del mercato del lavoro, della distribuzione del reddito e l’individuazione delle fasce sociali a rischio di povertà ed esclusione sociale. Tale bilancio è un sotto insieme del bilancio generale (regionale, nazionale o europeo). Tale operazione consente un processo di razionalizzazione, semplificazione e trasparenza, in grado di:
1. ridurre gli ambiti discrezionali di gestione del bilancio in materia di welfare, oggi suddivisi tra assessorati diversi (o centri di spesa) con bilanci separati, ognuno dei quali rappresenta un centro di potere;
2. ridurre le sovrapposizioni e le moltiplicazioni di spese e provvedimenti di protezione sociale, con un risparmio di bilancio, che si stima essere intorno al 5-7%;
3. snellire l’iter burocratico e centralizzare il processo di controllo e di monitoraggio, riducendo ulteriormente i costi della macchina statale.
• Ridefinizione, a fini fiscali, del concetto di attività lavorativa. Una definizione omogenea, seppur flessibile, di prestazione lavorativa, basata sul grado di dipendenza e di etero direzione, è necessaria per un equo trattamento nell’imposizione fiscale e nella contribuzione previdenziale.
Foto di David Fernández
22 Novembre 2024