I seicento posti del teatro Vittoria sono finiti in un batter d’occhio poco dopo le dieci e mezza, l’ora d’inizio di “Cambiare si può”. E molti, anzi moltissimi, sono stati costretti a “riunirsi” intorno agli altoparlanti in collegamento diretto, un po’ come si faceva con le radioline negli anni cinquanta per seguire le partite di “Tutto il calcio minuto per minuto”. Il “Cambiare si può”, “e si deve”, come hanno detto parecchi, inizia da qui, dai mille (più altri cinquemila che hanno seguito la diretta on line) che fuor di metafora hanno cominciato a dare una forma alla cosiddetta maggioranza. Più che uno sbarco è un varo, di un’arca. E per il momento punta a raccogliere se non proprio tutti gli esseri viventi di un paese giunto ormai allo stremo, almeno la maggioranza. E’ il suo bacino potenziale o, come direbbero, i pubblicitari, il target di riferimento. Per dirla, invece, con le parole dell’appassionatissimo intervento di Alessandro Gilioli, la maggioranza di un paese che non vuole i tagli al welfare e preferisce lasciare a terra senza problemi gli “F-35”. Una maggioranza che, appunto, un colore ce l’ha, ma non una forma, non una rappresentanza. Non la forma giusta, e in tempo utile, soprattutto, per partecipare alle elezioni lontano da quella condanna alla testimonianza che i disastri di questi anni sembrano propinarci. Si potrebbe accorciare i tempi con un leader? Nemmeno per sogno fanno capire dalla cabina di regia. “Magari un sindacalista o un magistrato”, dice Paolo Flores D’Arcais nel suo intervento. “Niet” da quasi tutti i 47 interventi che si sono succeduti fino alle cinque del pomeriggio.
Nella tabella di marcia del “Quarto polo” le elezioni sono solo un passaggio, sembra di capire. Il compito fondamentale è la ricostruzione di un blocco sociale e politico che rimetta in piedi qualcosa che il pensiero unico vuole escludere con tutte le sue forze non solo dal Parlamento ma anche dalla cultura e da tutti i luoghi in cui si prende una decisione o si esercita un confronto.
Ora l’avventura prosegue con gli appuntamenti nei territori, rigorosamente in forma aperta, e poi, entro la fine di dicembre, di nuovo con una assemblea nazionale. La base di partenza però sembra abbastanza solida: un no fermo a Monti, al centrosinistra, Vendola compreso, e a tutti i sostenitori di un’Europa che ci ordina sempre di fare qualcosa. La discriminante è abbastanza netta. Tanto che ad un certo punto, da chi quell’esperienza l’ha fatta,si possono udire dal palco parole molto critiche nei confronti di “Sinistra ecologia e libertà”. E a chi cerca di tenere aperto un confronto, come Lucarelli, viene riservata una accoglienza piuttosto fredda. E’ vero, quasi la metà della platea è vicina a Rifondazione comunista. Ma il peso della sconfitta alle primarie pesa non poco. Del resto, come dice Andrea Morniroli, il rischio di passare dal “Cambiare si può” al “Cambiare per finta” è abbastanza reale. E va evitato. Anche se mai come in questo momento alcune solide esperienze di movimento come l’”Acqua pubblica” e il filone del “No Tav” – le uniche in grado di non imbalsamare “padroni” – rappresentano un punto di riferimento molto valorizzato, non si può cedere a quella filosofia del “raccogliticcio” (Dino Greco) che sul lungo periodo rischia di inaridire il percorso in cambio di cartelli politici smaglianti. Insomma, occorre ripartire da quei “moderati sovversivi” (Domenico Finiguerra) che oggi più che mai hanno in testa la Costituzione della Repubblica italiana e mettono un punto fermo sul lavoro e sull’occupazione, ma non a tutti i costi, come dice il sociologo Luciano Gallino nel suo intervento video. Occorre ripartire da quella società civile che ora è chiamata realmente a contrastare i tagli al welfare e da quel mondo del lavoro che ora realmente è chiamato a far pagare la crisi ai padroni. C’è molto di concreto in tutto questo. E verrebbe la voglia di dire: finalmente. Marco Revelli, nel suo intervento conclusivo dice: “Usciamo da qui con il risultato di aver sconfitto la diffidenza”. E non è davvero poco.
Per Paolo Ferrero, che ha seguito l’assemblea per tutto il tempo, la valutazione è positiva. “C’è un quarto polo antiliberista”, dice. “Ed è positivo che da qui parta un percorso partecipato e aperto nei territori”.
Le conclusioni di Revelli.
«Ci siamo costituiti identità collettiva, tali rimaniamo e non perdiamoci di vista. Cambiare forse si può». Marco Revelli, uno dei professori, uno dei 70, da sempre vivace voce critica a sinistra, chiude la prima assemblea nazionale di “Cambiare si può”, convocata dall’appello in cui svetta come firmatario. Parla in fondo a 47 interventi serrati, dentro un teatro testaccino stracolmo, con la gente anche fuori nonostante la giornata infame per muoversi dentro la Capitale sotto la pioggia battente prima e un vento gelido poi. A portare lì una platea policroma c’è la speranza di un’altra politica, un’altra Italia. «Quando abbiamo lanciato l’appello non sapevamo come andava a finire – dice Revelli – sapevamo che si dovrebbe offrire a quella massa di cittadini disgustati dalla politica un luogo politico in cui riconoscersi un’alternativa» tanto al grillismo quanto a un centro sinistra organico al neoliberismo dentro un contesto segnato da una «catastrofe antropologica non solo politica, che ha sedimentato un clima acre». Ma per Revelli qui non s’è respirato quei veleni.
Allora cambiare forse si può, forse è possibile portare in parlamento un’altra Italia». Ma perché? Per fare l’ago della bilancia? «Non mi illudo che chi per anni ha portato avanti la tav, le privatizzazioni, i tagli, ha vulnerato l’articolo 18, possa essere riconvertito», si risponde il politologo torinese spezzando una lancia in favore di chi, nel magma in costituzione, non crede che sia possibile una relazione con l’asse Pd-Sel. Se si riuscirà a portare «qualcosa di più di un pugno di persone in Parlamento» sarà per dire che «è necessario un altro modello, una svolta di sistema, perché dentro questo sistema si muore, e dietro Monti c’è un modello terribile che occupa l’Europa». Revelli restituisce all’assemblea lo spettacolo appena visto ad Atene di condomini e aule d’università al freddo, di lavoratori pubblici in sciopero pressoché permanente, di negozi vuoti e la scritta gialla “affittasi” che ritorna ossessivamente. «Quella ricetta comporta quell’ordine di devastazione sociale, dobbiamo scardinare l’asse del Nord, imporre la rinegoziazione del debito».
Si vota a stragrande maggioranza la prosecuzione del percorso. Ora ci saranno in tutti i territori assemblee aperte, un “cambiare-si-può-day” tra il 14 e i 15 dicembre, per «innescare pratiche virtuose». Conclude Revelli: «Ci si parli, si aprano le porte, si discuta il che fare in uno spazio pubblico, ecco il cambio di stile». Un nuovo incontro nazionale entro il mese di dicembre sarà convocato per trarre le conclusioni ma il dado sembra tratto: uno spazio politico pubblico è stato appena aperto in Italia per non morire di malgoverno del Pd e populismo grillino. In sala, tra le centinaia di persone intervenute, si riconoscono Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista che da anni cercava la strada di una coalizione “sudamericana”, ci sono Giulietto Chiesa, Giorgio Cremaschi del comitato No debito. Età media non più alta di altre occasioni dunque un alto tasso di esperienza ma l’atmosfera rimandava a una diffusa disponibilità a compiere una nuova esperienza.
Alcune voci colte al volo all’uscita (continueremo a monitorare il nuovo spazio politico): «Positiva la scelta di un percorso coinvolgente e partecipato per aprire uno spazio pubblico a sinistra – dice Ferrero a Popoff – che è anche un modo per sciogliere in avanti il nodo dei rapporti con le forze organizzate che ha attraversato il dibattito». «La dialettica è aperta – aggiunge anche Piero Maestri di Sinistra critica – purché sia un processo reale, purché nei territori non prevalgano i piccoli ceti politici». di Checchino Antonini
21 Novembre 2024