Secondo la proiezione media dell’Onu per la crescita della popolazione mondiale, entro il 2075 il numero degli esseri umani raggiungerà il suo picco con circa 9,5 miliardi di persone, ci saranno cioè tre miliardi di bocche da sfamare in più.
In soli 60 anni si prevedono quindi enormi cambiamenti nella ricchezza, nell’apporto calorico e nelle preferenze alimentari delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo. Il nuovo rapporto “Global Food – Waste not, Want not – Feeding the 9 Billion: The tragedy of waste”, pubblicato dall’Institution of mechanical engineers (Imeche), avverte che «L’umanità si troverà rapidamente di fronte a questioni sociali, economiche, ambientali e politiche di ampio respiro, che devono essere affrontate oggi per garantire un futuro sostenibile per tutti. Una questione è come produrre più cibo in un mondo di risorse limitate».
Attualmente, la produzione mondiale di cibo è di circa 4 miliardi di tonnellate all’anno, ma a causa di sistemi di raccolta, immagazzinamento e trasporto carenti, sprechi del mercato e dei consumatori, il 30-50% ( tra li 1,2 e i 2 miliardi di tonnellate) dell’intera produzione alimentare non raggiunge mai uno stomaco umano. Il rapporto sottolinea inoltre che «questa cifra non riflette il fatto che grandi quantità di terra, energia, fertilizzanti e acqua vengono persi durante la produzione di prodotti alimentari, che semplicemente finiscono tra i rifiuti. Questo livello di sprechi è una tragedia che non può continuare, se vogliamo riuscire nella sfida sostenibile di soddisfare le nostre future esigenze alimentari».
Nel 2010, l’Institution of mechanical engineers individuò sula base di caratteristiche del grado attuale e previsto di sviluppo economico, tre principali gruppi emergenti in tutto il mondo: “Fully developed”, paesi maturi, società post-industriali, come quelli dell’Europa, caratterizzati da una popolazione stabile o in declino e che sta invecchiando; “Late-stage”, Paesi in via di sviluppo attualmente in via di rapida industrializzazione, come la Cina, che registrano tassi di decelerazione della crescita della popolazione, insieme ad una ricchezza crescente e ad un aumento dell’età media; “Newly”, Paesi in via di sviluppo che stanno cominciando l’industrializzazione, soprattutto in Africa, con altissimi livelli di crescita della popolazione (che entro il 2050 raddoppieranno o triplicheranno le loro popolazioni), e con un’età media molto bassa. Il rapporto sostiene che ognuno di questi gruppi «Nei prossimi decenni dovrà affrontare diverse questioni che riguardano la produzione alimentare, lo stoccaggio e il trasporto, così come le aspettative dei consumatori, se vogliamo continuare ad alimentare tutto il nostro popolo». E lo spreco di cibo e materie prime è il problema più grosso.
Nei Paesi meno sviluppati, come quelli dell’Africa sub-sahariana e del Sud-Est asiatico, gli sprechi riguardano soprattutto quel che l’agricoltore-produttore riesce a far arrivare alla catena di rifornimento: «Raccolta inefficiente, trasporto locale inadeguato e scarse infrastrutture significano che i prodotti vengono spesso trattati impropriamente e conservati in condizioni non idonee nel sito agricolo».
Nei Paesi maturi, pienamente sviluppati come l’Italia o la Gran Bretagna, le pratiche agricole più efficienti e migliori trasporti ed impianti di stoccaggio e di trasformazione fanno in modo che una percentuale maggiore del cibo prodotto raggiunga mercati e consumatori. «Tuttavia, le caratteristiche associate alla moderna cultura del consumatore medio producono spesso uno spreco attraverso il comportamento dei dettaglianti e dei clienti. I grandi supermercati, per soddisfare le aspettative dei consumatori, spesso rifiutano i raccolti di frutta e verdura perfettamente commestibili di un’azienda agricola in quanto non conformi agli standard rigorosi di commercializzazione per le loro caratteristiche fisiche, come la dimensione e l’aspetto. Ad esempio, come risultato di tali pratiche, fino al 30% della produzione vegetale del Regno Unito non viene mai raccolta. Globalmente, i rivenditori producono in questo modo 1,6 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari ogni anno». Tra i problemi di questo consumo che produce rifiuti ci sono le promozioni e le offerte dei supermercati che incoraggiano i clienti ad acquistare quantità eccessive, che, nel caso dei prodotti alimentari deperibili, inevitabilmente producono sprechi domestici: «Complessiva tra il 30% e il 50% di quello che viene acquistato nei Paesi sviluppati viene buttato via dall’acquirente».
E sprecare il cibo non significa solo perdere nutrimento essenziale alla vita di milioni di persone, ma anche preziose risorse, compresi terreni, acqua ed energia. Per questo, in una società globalizzata, affrontare il problema dei rifiuti alimentari contribuirà a risolvere una serie di problemi riguardanti risorse essenziali.
Negli ultimi 50 anni il miglioramento delle tecniche agricole e la tecnologia, insieme ad una espansione del 12% dei suoli agricoli, hanno contribuito ad aumentare in modo significativo i raccolti, ma il rapporto avverte che «La produzione alimentare globale già utilizzando 4.9 Gha (miliardi di ettari, ndr) della superficie di 10 Gha dei terreni utilizzabili a disposizione, sembra improbabile un ulteriore aumento dell’area agricola senza incidere negativamente su ciò che resta degli ecosistemi naturali del mondo». C’è anche un altro grosso problema, l’aumento della produzione di cibi di origine animale richiederà più terra e risorse, dato che l’allevamento necessita di un ampio uso del territorio. «Ad esempio – spiega il rapporto Imeche – un ettaro di terreno può produrre riso o patate per 19 – 22 persone all’anno. La stessa area produrrà abbastanza agnello o manzo solo per una o due persone. Notevoli tensioni rischiano di emergere, dato che il bisogno di cibo è in concorrenza con le richieste di conservazione degli ecosistemi e con la produzione di biomassa come fonte di energia rinnovabile».
Nel XX secolo l’estrazione di acqua per uso umano è aumentata di più del doppio del tasso di crescita della popolazione. Attualmente gli esseri umani utilizzano circa 3.800 miliardi di m3 di acqua all’anno e circa il 70% viene consumata dall’agricoltura, e questo continuerà ad aumentare nei prossimi decenni. «Infatti, a seconda di come il cibo viene prodotto e della validità delle previsioni per le tendenze demografiche, la domanda di acqua nella produzione alimentare potrebbe raggiungere 10 – 13.000 miliardi di m3 all’anno entro la metà del secolo. Questo è da 2,5 a 3,5 volte superiore al totale dell’utilizzo umano di acqua dolce odierno».
Ma anche qui sorge un problema colossale: se è vero che una migliore irrigazione può drasticamente migliorare la resa delle coltivazioni e che circa il 40% della fornitura mondiale di cibo proviene dai terreni irrigui, l’acqua utilizzata per l’irrigazione è però spesso non sostenibile, proviene da pozzi che emungono falde idriche mal gestite. L’Imeche sottolinea che «In alcuni casi, i programmi di sviluppo dei governi e gli interventi degli aiuti internazionali aggravano questo problema. Inoltre, si continua a utilizzare sistemi dispendiosi, come allagamenti o “overhead spray”, che sono difficili da controllare e disperdono gran parte dell’acqua per evaporazione. Sebbene i metodi di irrigazione a goccia o trickle siano più costosi da installare, possono essere fino al 33% più efficiente in termini di consumo, oltre ad essere in grado di portare i fertilizzanti direttamente alla radice».
Anche nella fase di lavorazione e trasformazione dei prodotti agricoli si utilizzano grandi quantità d’acqua e lo spreco cresce insieme alla domanda di cibo. «Questo è particolarmente importante nel caso della produzione di carne, dove per il manzo si utilizza circa 50 volte più acqua che per le verdure. In futuro, per ridurre gli sprechi, saranno necessarie tecniche più efficaci di lavaggio, procedure di gestione e riciclaggio e depurazione delle acque».
Ma un altro spreco rischia di passare inosservato: quello dell’energia che è una risorsa essenziale nell’intero ciclo di produzione alimentare, con stime che mostrano che è richiesta una media di 7-10 calorie in ingresso per produrre una caloria di cibo. Un dato che varia notevolmente a seconda delle produzioni: dalle 3 calorie per le colture vegetali alle 35 calorie per la produzione di carne bovina. «Dal momento che gran parte di questa energia proviene dall’utilizzo di combustibili fossili – sottolinea il rapporto – lo spreco di cibo contribuisce potenzialmente ed inutilmente al global warming, nonché ad un inefficiente utilizzo delle risorse».
Il problema è gigantesco: «Nel moderno processo agricolo industrializzato, verso il quale si stanno indirizzando le nazioni in via di sviluppo al fine di aumentare i rendimenti futuri, il consumo di energia nella produzione e nell’applicazione di prodotti chimici quali fertilizzanti e pesticidi rappresenta la singola componente più grande. La produzione di grano prende il 50% del suo apporto energetico da questi due soli elementi». A livello mondiale la produzione di fertilizzanti consuma circa il 3-5% della produzione annuale mondiale di gas. Dato che da qui al 2030 la produzione dovrebbe aumentare del 25%, l’approvvigionamento energetico sostenibile diventerà un problema sempre più grave. «L’energia per i macchinari, sia nelle fattorie che negli impianti di stoccaggio e di trasformazione, insieme all’utilizzo diretto del combustibile nel settore della meccanizzazione e della produzione di mezzi di trasporto, si vanno ad aggiunge al totale dell’energia, che attualmente rappresenta circa il 3,1% del consumo annuo di energia globale».
Il corposo rapporto “Global Food – Waste not, Want not” si conclude con una nota di speranza e tre raccomandazioni: «L’aumento della popolazione combinata a standard nutrizionali migliori ed alle mutevoli preferenze alimentari, è in grado di esercitare pressioni sull’aumento dell’offerta alimentare mondiale. Ingegneri, scienziati e agricoltori hanno gli strumenti, la conoscenza e i sistemi che ci aiuteranno a raggiungere incrementi di produttività. Tuttavia, cresce la pressione sulle risorse limitate di terra, acqua ed energia. La possibilità di fornire il 60-100% in più di cibo semplicemente eliminando le perdite ed allo stesso tempo liberando risorse del territorio, energia e acqua per altri usi, è una opportunità che non dovrebbe essere ignorata».
Però, per affrontare una sfida dalla quale dipendono i destini dell’umanità e della vita sul pianeta così come la conosciamo, per l’Imeche c’è bisogno di immediati impegni politici:
1. La Fao collabori con la comunità internazionale di ingegneria per garantire che i governi delle nazioni sviluppate approntino programmi per il trasferimento delle conoscenze ingegneristiche, del design know-how, e della tecnologia adatta ai “newly” Paesi in via di sviluppo. Ciò contribuirà a migliorare la gestione e la produzione dei raccolti e immediatamente le fasi post-raccolto della produzione alimentare.
2. I governi dei Paesi a rapido sviluppo introiettino la riduzione al minimo dei rifiuti pensandoci già in fase di progettazione e costruzione delle infrastrutture di trasporto e di stoccaggio, progettato e costruito.
3. I governi dei Paesi sviluppati definiscano ed attuino politiche che cambino le aspettative dei consumatori. Queste dovrebbero scoraggiare i rivenditori da pratiche dispendiose che portano al rifiuto del cibo sulla base delle caratteristiche cosmetiche ed agli sprechi domestici a causa di un eccessivo acquisto da parte dei consumatori.
Umberto Mazzantini – Green Report
23 Novembre 2024