Una ricerca dell’Università di Melbourne dimostra come in 10 anni l’Australia potrebbe fare a meno delle fonti fossili, in tutti i settori, trasporti compresi. Uno scenario ambizioso, che costerebbe il 3% del Pil del paese, ma che indica all’opinione pubblica come il 100% rinnovabili sarebbe a portata di mano se solo ci fosse la volontà politica.
Come dovrebbe essere il paese ideale in cui sperimentare un sistema energetico sostenibile? Ovviamente dovrebbe essere ricco di fonti rinnovabili, ma anche avere grandi deserti dove installare gli impianti senza problemi e, dunque, non essere troppo densamente popolato, avere un buon livello culturale e di reddito, ed essere dotato di una valida struttura scientifica e industriale. Sembra l’identikit dell’Australia: un paese di 22 milioni di abitanti che abitano un territorio, prevalentemente desertico, inondato dal sole e spazzato dal vento, grande quanto l’Europa Occidentale.
Peccato che l’Australia sia anche uno dei massimi esportatori al mondo di combustibili fossili (carbone, soprattutto), e che solo recentemente, con il premier Julia Gillard, il governo australiano abbia cominciato a prendere sul serio le tematiche del cambiamento climatico, ponendo una tassa di 23 dollari a tonnellata sulla CO2 emessa dai grandi emettitori australiani.
Ispirata forse dal vento nuovo portato dalla Gillard, arriva ora una ricerca dell’Energy Research Institute dell’Università di Melbourne, che svela come, se solo si volesse, l’Australia potrebbe fare a meno delle fonti fossili, in tutti i settori, trasporti compresi, in appena 10 anni (vedi allegati in fondo).
La ragione che dovrebbe spingere a questa svolta radicale, secondo i ricercatori, sta soprattutto nei rischi che il mondo, e l’Australia in particolare, corrono a causa del cambiamento climatico, se non si prenderanno, globalmente, misure drastiche per contenerlo. Da qualche anno, infatti, l’Australia sta vivendo stagioni estreme, fra siccità prolungate e inondazioni mai viste, e anche l’estate 2013 sta passando alla storia per gli incendi giganti e una ondata di calore mai registrata prima, che ha portato il paese a vivere con temperature medie superiori a 39° C per una settimana di fila, frantumando diversi record assoluti di caldo negli ultimi 200 anni. Insomma, continuando in questa direzione, le estati australiane dei prossimi decenni potrebbero diventare invivibili in gran parte del paese.
Così i ricercatori di Melbourne si sono messi a studiare il modo in cui l’Australia potrebbe dimostrare al mondo che di carbone, gas e petrolio si può fare a meno. La loro ipotesi è che nel 2020, l’Australia richieda 325 TWh di elettricità l’anno (l’Italia consuma ora circa 330 TWh annui), un 40% in più di oggi, visto che per allora questo vettore, nei loro piani, dovrà alimentare anche i trasporti, diventati prevalentemente elettrici, e il riscaldamento, tramite pompe di calore.
A produrre questa elettricità, oggi generata per il 90% da carbone e gas, sarà soprattutto il solare termodinamico, che produrrà il 58% dell’elettricità, grazie a 12 enormi centrali a specchi e torri solari da 3500 MW l’una, che usano sali fusi a 500 °C di temperatura, distribuite al margine sud e sudorientale del grande deserto centrale, subito a ridosso delle grandi città. I ricercatori di Melbourne, hanno scelto questa tecnologia, già in sperimentazione in Spagna, in quanto la più adatta al territorio desertico australiano, e perché, grazie all’accumulo termico consentito dai sali fusi, può produrre continuamente non solo di notte, ma anche, a potenza ridotta, per diversi giorni nuvolosi di fila. Si potrebbe pensare che 50 GW di centrali solari a specchi, occupino un’enorme quantità di territorio. In realtà nel piano si fa notare che, tutte assieme, coprirebbero 2.760 kmq, meno della superficie del più grande ranch australiano.
La secondo fonte prevista dal piano è l’eolico, con 23 grandi centrali eoliche ognuna da 2000-3000 MW, poste lungo le coste orientali e meridionali, sempre molto vicine ai maggiori centri urbani del paese. Il restante 2% della fornitura energetica proverrebbe da centrali idroelettriche già esistenti – usate anche come sistemi di accumulo – e da nuove centrali a biomasse, che avrebbero anche il compito di fare da riserva di potenza nei, normalmente rari, momenti in cui sole e vento non siano disponibili in quantità sufficienti.
Il piano prevede infine anche una quota di autoproduzione da fotovoltaico, ma limitando il suo uso alla riduzione della domanda domestica, con mezzo milione di piccoli impianti su tetti in grado di fornire circa il 15% dell’energia consumata dalle famiglie. Qui, facciamo notare, i ricercatori hanno forse sottostimato le potenzialità della tecnologia fotovoltaica, basandosi su dati del 2008, con 6$/kW di costo medio degli impianti (oggi il costo è meno della metà …) e 15 GW come installato globale nel mondo (oggi sono già 17 GW solo in Italia).
Si potrebbe pensare che un piano così ambizioso, costi una fortuna. In realtà, seguendo i calcoli e i piani dettagliati nelle 190 pagine del rapporto, il costo complessivo sarebbe relativamente modesto: 370 miliardi di dollari australiani, cioè 290 miliardi di euro, in 10 anni, che, secondo gli autori, potrebbero, ma è solo una delle ipotesi, essere raccolti con un sovrapprezzo di 6,5 centesimi di Aus$ (5 eurocent/kWh) in bolletta, circa un +50% sul costo attuale. Per la famiglia media australiana, si tratterebbe di una spesa extra di 420 Aus$ (330 euro) l’anno, o 8 Aus$ a settimana. In questa ipotesi, il grosso del costo della conversione finirebbe sui grandi consumatori di energia industriali e minerari, che, però, come compensazione, riceverebbero una enorme mole di lavoro dalla creazione degli impianti solari ed eolici.
Si prevedono nel piano 120.000 nuovi posti di lavoro per la realizzazione delle infrastrutture e 40.000 per il loro funzionamento. Per comparare il peso finanziario del progetto proposto dell’Università di Melbourne, 290 miliardi di euro in 10 anni, sono circa il doppio di quanto spenderà l’Italia per gli incentivi alle rinnovabili; ma avendo l’Australia una popolazione che è un terzo della nostra, il loro peso per loro sarebbe 6 volte più gravoso. In compenso, però, eliminerebbe una volta per tutte l’uso dei combustibili fossili dal paese.
Più che lo sforzo finanziario richiesto – 3% del Pil annuo australiano – però, a far sorgere dei dubbi sulle possibilità pratiche di realizzazione di una simile, velocissima conversione energetica, è il fatto che l’Australia vive in gran parte di produzione e esportazione di carbone, gas e, in futuro, forse anche di petrolio da fracking (recentemente individuato nei deserti centrali). Se l’Australia volesse veramente creare un sistema energetico sostenibile per ridurre le emissioni di gas serra, poi non potrebbe certo consentire che i combustibili fossili che non utilizza, vengano esportati e bruciati altrove. La resistenza al cambiamento, quindi, verrebbe principalmente dai potentissimi settori minerari e industriali australiani, legati all’esportazione di carbone e altri combustibili fossili.
Ma forse, l’idea di questi ricercatori australiani, è soprattutto quella di dimostrare che, se vogliamo, il cambiamento radicale del sistema energetico è tecnologicamente e finanziariamente possibile. In Australia questa “rivoluzione energetica” sarebbe particolarmente a portata di mano, per le peculiari caratteristiche del paese, ma, con diversi tempi di applicazione e con diversi mix di fonti e soluzioni tecnologiche, probabilmente ogni paese del mondo potrebbe trovare la sua strada verso la sostenibilità. Se quindi continueremo sulla strada dei combustibili fossili, e finiremo per rendere questo pianeta invivibile e dilaniato da guerre per accaparrarsi le ultime riserve di gas o petrolio, non potremo giustificarci con la scusa del «non avevamo alternative»: il cambiamento è possibile, dice questa ricerca australiana, basta volerlo sul serio.
Alessandro Codegoni – Quale Energia
23 Novembre 2024