In quindici anni, 235 municipalità in 37 Paesi sparsi hanno deciso di tornare a una gestione pubblica delle reti d’acqua potabile, per una popolazione complessiva di 106 milioni di abitanti. In Italia, le gestioni “in house” riguardano il 43% dei Comuni. Impera, Reggio Emilia, Varese e Termoli hanno percorso la via della pubblicizzazione. L’esempio di alleanza tra società in Lombardia
Ci sono metropoli europee conosciute in tutto il mondo come Parigi, Berlino e Budapest. Ma anche centri di media grandezza come Bordeaux, Nizza e Stoccarda. Non bisogna, però, pensare che il fenomeno riguardi solo il Vecchio Continente. Nella cartina geografica delle città, ma anche regioni, che hanno preferito tornare alla gestione pubblica della rete dell’acqua potabile sono rappresentate tutte le zone del mondo.
L’elenco si apre con le Americhe: negli Usa hanno dato addio alla gestione privata municipalità del livello di Atlanta e Houston, mentre nell’area sudamericana troviamo la capitale colombiana Bogotà. Ancora: in Argentina le città di Santa Fè, Rosario e Mendoza, nonché tutta la provincia di Buenos Aires. Ben rappresentata anche l’Africa, con una serie di capitali: da Conakry (Guinea) a Kempala (Uganda), da Bamako (Mali) a Bangui (Repubblica Centrafricana) ma anche la sudafricana Johannesburg. Per finire con l’Asia, dove troviamo sia megalopoli del livello di Kuala Lampur, capitale malesiana, sia centri dal grande passato storico come Samarcanda.
Sembra la rappresentazione di un atlante geografico, ma è soltanto un elenco parziale di tutti quei comuni, grandi e piccoli che dal marzo del 2000 al marzo del 2015 hanno cambiato la propria visione politica e hanno “rimunicipalizzato” la gestione dei servizi idrici, ridando pienamente senso all’espressione “acqua pubblica”. In 15 anni, hanno cambiato idea 235 tra centri grandi e piccoli in 37 paesi sparsi nei cinque continenti, per una popolazione complessiva di 106 milioni di abitanti.
I dati sono stati presentati nel World Water Forum che si è tenuto il mese scorso in Sud Corea, dove è stato ricordato come il fenomeno abbia subito un’accelerazione negli ultimi anni, visto che le “rimunicipalizzazioni” del periodo 2010-2015 sono state il doppio del decennio precedente. Lo studio presentato ricorda come il più alto numero di “inversioni” è avvenuta negli Stati Uniti, paese che non si può certo definire nemico della iniziativa privata e in Francia, che pure è la patria di due colossi privati come Suez e Veolia, che operano a livello globale.
Secondo uno dei promotori dell’iniziativa, Sakoto Kishimoto, esperto del Trasnational Institute “nel rapporto viene dimostrato come la privatizzazione dei servizi idrici arriva dopo anni di promesse non mantenute, servizi di bassa qualità e prezzi rincarati. La ripubblicizzazione ha invece portato da subito taglio dei costi, efficienza operativa, incremento degli investimenti e un più alto livello di trasparenza”.
E in Italia? Nei 15 anni presi in considerazione sono tornate al modello pubblico Imperia, Reggio Emilia, Varese e Termoli. Complessivamente le gestioni “in house” coprono il 43,4 per cento dei comuni che corrisponde a un 40,3% della popolazione complessiva. Il problema è anche le aziende idriche pubbliche sono ancora caratterizzata da eccessiva frammentazione. Anche se qualche tentativo per creare realtà più grandi, che possono sfruttare economie di scala, si stanno facendo avanti. E’ il caso di Water Alliance: si tratta di una joint venture fra sette realtà “in house” della Lombardia, che garantiscono il servizio a 5 milioni di cittadini (più della metà del totale): un totale di 900 comuni, per una realtà i cui numeri in Italia sarebbero secondi solo alla romana Acea. Per ora si tratta solo di una alleanza commerciale, ma è indubitabile che l’accordo costituisca la prova generale per una possibile fusione nei prossimi anni.
LUCA PAGNI – Repubblica
22 Novembre 2024