Un oceano di plastica

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Un oceano di plastica
di Pietro Grecoplastica in mare
C’è una discarica di plastiche a cielo (e mare) aperto, grande due volte il Texas, che galleggia in pieno Oceano Pacifico, tra la California e le Hawaii, coprendo un’area nota per la sua perenne bonaccia. Il primo a scoprirla, nel 1997, è stato Charles Moore, velista e scienziato. Che la fece conoscere al grande pubblico con una serie di interviste televisive: al Late Show with David Letterman, a The Oprah Show, a Good Morning America. Navigando per giorni a vela in quella zona, rivelò Moore, ho incontrato una bottiglia di plastica in media ogni ora.
Da allora i media di tutto il mondo hanno parlato a più riprese di un’enorme distesa flottante di bottiglie, contenitori, fogli, buste, spezzoni di reti per la pesca e di ogni altro genere di materiale polimerico, plastico e gommoso, assurgendolo a simbolo dell’insensata «società dei rifiuti».
La situazione divenne più chiara nel 2001, quando lo stesso Moore e un gruppo di colleghi pubblicarono un articolo sul Marine Pollution Bulletin in cui non solo mostrarono che l’area non è esattamente una discarica a cielo aperto piena zeppa di bottiglie galleggianti ma è in realtà una sorta di zuppa in cui la concentrazione in acqua di minuscoli pezzettini di plastiche è altissima: ne contarono 334.271 per chilometro quadrato, con un rapporto in peso di 6:1 rispetto allo zooplankton. Insomma in quel tratto di mare sostenevano Moore e colleghi c’erano, letteralmente, molto più polimeri di sintesi che vita.
La scorsa settimana Science, la rivista dell’associazione americana per l’avanzamento delle scienze (AAAS), ha fatto il punto sulla discarica oceanica, nel quadro di uno speciale sulla situazione dei mari di tutto il mondo. Sebbene siano ancora oggetto di dibattito scientifico sia la concentrazione di oggetti galleggianti sia l’estensione dell’area, non c’è dubbio che la discarica nella zona di bonaccia perenne tra Hawaii e California esiste. Formata, probabilmente, da un vortice oceanico subtropicale.
La notizia è che quella scoperta da Moore non è l’unica “discarica oceanica” esistente. Se ne è scoperta una, analoga, dove si concentrano i rifiuti galleggianti (soprattutto polimerici), nell’Atlantico del Nord. Ma i modelli matematici indicano che ce ne sono almeno altre due nell’emisfero boreale: una nell’Oceano Pacifico al largo del Cile e l’altra nell’Oceano Atlantico, tra l’America meridionale e l’Africa. Inoltre dovrebbe essercene un’altra nell’Oceano Indiano, tra l’Africa e l’Australia.
Le discariche oceaniche sono certo un problema. Da studiare meglio. Soprattutto negli effetti che producono sulla vita marina, di cui si conosce pochissimo. Negli anni scorsi hanno fatto rumore sui media le denunce dei movimenti ambientalisti di grandi animali (dalle balene alle tartarughe) che hanno ingerito grossi pezzi di plastiche, rimanendo spesso soffocati. Non si conosce esattamente quale sia la frequenza di questi casi. Ma molti ritengono che non sia neppure questa il problema principale. Bisogna studiare meglio sia l’ingestione da parte di pesci e altri animali marini di oggetti polimerici di piccole dimensioni (alcuni studi sembrano indicare che il fenomeno non sia esteso), sia gli effetti delle sostanze inquinanti rilasciate dalla plastiche e dalla gomme nel corso della loro progressiva frammentazione. Inoltre bisognerebbe capire meglio quali sono gli effetti fisici (per esempio sullo scambio di luce e calore tra atmosfera e oceano) e chimici (per esempio sull’ossigenazione) di questa patina polimerica galleggiante.
Qualsiasi sia l’entità del problema, di inequivocabile origine antropica, la soluzione più razionale è già nota: imparare da parte nostra a controllare il ciclo dei rifiuti, evitando di disperderli nell’ambiente.
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