Lo schiavismo è purtroppo una realtà ancora presente, nei Paesi in via di sviluppo e non solo, come pratica abitudinaria da parte di numerose multinazionali al fine di ottenere il massimo guadagno e rendimento produttivo, a costo zero per i loro bilanci economici, ma a costo della vita per centinaia di adulti e bambini in tutto il mondo, costretti a lavorare in condizioni disumane per soddisfare ogni bisogno consumistico dei Paesi industrializzati.
Spesso anche noi ci ritroviamo ad essere complici, a nostra insaputa o per carenza di informazione, di una realtà che dovrebbe essere scomparsa da decenni, ma che continua a persistere e a condannare coloro che ne cadono vittima giorno dopo giorno, senza sosta. Lo schiavismo non è purtroppo assente nemmeno nel nostro Paese, come nel caso della multinazionale delle bevande Coca Cola.
1) Coca Cola
L’eclatante caso di Rosarno, in Calabria, è stato messo in luce da un’inchiesta effettuata da parte di The Ecologist ed in seguito ripresa da The Independent, che ha reso noto come nel mezzogiorno la raccolta delle arance destinata alla produzione delle bibite del noto marchio avvenisse in condizioni di schiavitù per mano di migranti provenienti dall’Africa, spesso dopo aver raggiunto le coste italiane a seguito di una squallida traversata vista come unica speranza di sopravvivenza. Coca cola avrebbe reagito semplicemente tagliando i ponti e gli accordi precedentemente stipulati con le aziende calabresi produttrici di arance, a difesa della propria immagine di multinazionale “pulita”.
2) Philip Morris
Nel 2010 la multinazionale del tabacco Philip Morris ammise la presenza nelle proprie piantagioni di almeno 72 bambini dell’età di 10 anni, coinvolti nella raccolta del tabacco e a rischio di subire un avvelenamento da nicotina. Non solo: pare che l’azienda costringa lavoratori migranti ad operare in condizioni di schiavitù, dopo aver sequestrato loro i documenti e costringendoli ad una operatività continua, senza alcun compenso. Nonostante le promesse avanzate da parte della multinazionale, relativamente alla volontà di porre fine a simili situazioni, pare che, in base a quanto riportato da The Independent, il problema non sia ancora del tutto risolto e che vi siano attualmente intere famiglie e bambini costretti a lavorare in condizioni disumane nelle piantagioni.
I marchi da evitare: Marlboro, Basic, Benson & Hedges, Cambridge, Chesterfield, Commander, Dave’s, English Ovals, Lark, L&M, Merit, Parliament, Players, Saratoga and Virginia Slims.
3) Victoria’s Secret
Il marchio Victoria’s Secret dichiara di utilizzare esclusivamente cotone di provenienza “fair trade” e ciò dovrebbe costituire una garanzia contro lo sfruttamento lavorativo all’interno delle piantagioni. Purtroppo però sembra essere concreto il rischio che alcuni produttori di cotone biologico e fair trade non riescano a fare a meno di sfruttare il lavoro minorile per il raggiungimento dei propri obiettivi produttivi, come nel caso della tredicenne Clarissa, che nel Burkina Faso sarebbe stata costretta a seminare e raccogliere cotone subendo maltrattamenti fisici. Dall’accaduto, nel 2008, pare che Victoria’s Secret non abbia fatto altro che rimuovere la dicitura “fair trade” dalle etichette dei propri prodotti provenienti dal Burkina Faso. Situazioni di sfruttamento potrebbero dunque essere ancora presenti nelle piantagioni di cotone di tale località.
4) KYE
Nel 2010 il National Labor Committee mise sotto accusa per schiavismo la manifattura cinese KYE per aver reclutato 1000 studenti lavoratori di età nominalmente compresa tra i 16 ed i 17 anni, ma spesso inferiore ai 15 anni, costretti a lavorare per 15 ore al giorno e per 7 giorni su 7. Non sarebbero mancate inoltre numerose donne di età compresa tra i 18 ed i 25 anni, a cui venivano imposte condizioni simili e con una paga di 65 centesimi all’ora. Anche di fronte a dati ufficiali, KYE avrebbe proseguito a sostenere le perfette condizioni di lavoro all’interno delle proprie sedi. KYE è responsabile per la produzione di prodotti per aziende e marchi come Microsoft, XBox e HP. Altre aziende hanno recentemente ammesso di sfruttare i lavoratori cinesi per la loro produzione. Tra di esse non farebbero eccezione Apple e Nokia. (Leggi anche La Apple in Cina sfrutta i lavoratori e inquina l’ambiente)
5) Forever 21
Relativamente all’acquisto di cotone proveniente da piantagioni in cui lo schiavismo prosegue ad imperare, come nel caso dell’Uzbekistan, Forever 21 avrebbe rilasciato dichiarazioni piuttosto subdole, lasciando intendere che vi siano accordi stipulati con i produttori affinché garantiscano che il lavoro venga svolto legalmente e da persone qualificate. La questione ha dato origine ad una petizione che tiene conto di come in Uzbekistan il governo costringa ogni anno milioni di studenti ad abbandonare la scuola nel periodo della raccolta del cotone, per dedicarsi ad essa in condizioni di schiavismo ed in piena violazione dei diritti umani. Forever 21 non è l’unica azienda di abbigliamento a rifornirsi di cotone proveniente dall’Uzbekistan, uno dei maggiori produttori mondiali. Tra di esse vi sarebbero anche Aeropostale, Toys ‘R’ Us, e Urban Outfitters.
6) Hershey’s
Hershey’s ha recentemente reso noto il lancio sul mercato americano di una nuova linea di cioccolato, denominata “Bliss Chocolate”, che utilizza esclusivamente cacao certificato dalla Rainforest Alliance. Una sola linea di prodotti non potrà di certo risollevare il marchio dalle accuse di schiavismo provenienti dall’International Labor Rights Forum. Sebbene l’azienda abbia siglato un rapporto contro il lavoro minorile già dieci anni fa, migliaia di bambini raccolgono ancora cacao in Africa per la multinazionale del cioccolato, che purtroppo proseguirà ancora ad avere un retrogusto amaro dal sapore di schiavitù, come nel caso delle rivali Nestlé e M&M.
Marta Albè – GrrenMe
21 Novembre 2024