Un «quadro di verità» sul servizio idrico, con dati e numeri precisi, e una linea politica cristallina: avanti tutta sulla gestione pubblica. Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, parte da questi due pilastri per dichiarare una guerra senza quartiere all’ultimo decreto del governo, che di fatto privatizza l’acqua. La giunta di Bari ha già votato una delibera che sancisce l’avvio della ripubblicizzazione dell’Acquedotto pugliese, definendo l’acqua «bene comune e un diritto umano universale». Seguirà a ruota una legge regionale che sancisca la trasformazione dell’Acquedotto da Spa ad ente di diritto pubblico. Scelta radicale. Con internalizzazioni (non esternalizzazioni) di personale e in prospettiva anche la gestione dell’acqua minerale. Ciliegina finale: il piano prevede che alla fine la Regione dovrà spendere meno.
Come azionista unico dell’Acquedotto, lei sarebbe fortemente indiziato di voler ricostituire un carrozzone.
«In Italia si parla di queste cose senza mai entrare nel merito. Vogliamodire chiaramente cos’è l’Acquedotto pugliese? È il più grande acquedotto d’Europa e forse del mondo, con 20mila chilometri di rete contro le 8mila degli acquedotti lombardi. Ha già cantierizzato lavori per mezzo miliardo e ha in vista investimenti per un miliardo. Stiamo parlando di una struttura complessa. La nostra gestione ha già raggiunto obiettivi invidiabili. Chiedo. perché il privato dovrebbe garantirmi quello che mi garantisce oggi l’Acquedotto, con i suoi laboratori d’analisi o con la gestione della rete fognaria?»
Gli amatori del mercato potrebbero rispondereche il mondo va in quella direzione.
«Falso: nessuno va in quella direzione. Il vero problema è che in Italia nessuno lo dice. A Parigi si sta ristatalizzando, in America nessuna gestione dell’acqua è privata. Avevano provato ad Atlanta, sono tornati indietro. Vogliamo anche dire che l’esperienza di Arezzo, dove sono arrivati i francesi, è stata fallimentare? Vogliamo davvero fareunbilancio serio, aprire undibattito, fare un’informazione non ideologica e basata su elementi certi? ».
C’è chi dice che l’acqua pugliese è troppo cara.
«Cara? Per una regione che non ha la materia prima, non mi pare proprio. Si vuole fare il paragone con la Lombardia, la Regione più ricca di acque del Paese? La Puglia è definita «terra sitibonda», assetata: non mi sembra che siano realtà comparabili. Quanto alla tariffa, se si consideranoi singoli Ato (ambiti territoriali ottimali), la nostra tariffa non è affatto alta».
E le famigerate perdite? Si dice che vada persa la metà dell’acqua trasportata.
«Anche questo, più che un dato, è unametafora. In realtà in quelnumero si sommano due tipi di perdite: quelle fisiche e quelle amministrative. L’Acquedotto perde il 20-25% di entrate per via dei contatori antidiluviani. Stiamo già cambiando 250mila contatori. L’altra ragione sono i morosi:mala loro stagione sta finendo. Quanto alle perdite fisiche, dopo 20anni di dibattito con il telecontrollo siamo riusciti a recuperare il 7% delle perdite su seimila chilometri di reti. Si è passati dal 35% di due anni fa al 28%, migliorando del 20% la quota di acqua persa».
Ma i cittadini si accorgono del miglioramento?
«Eccome. Negli ultimi due anni non è né piovuto abbastanza, né nevicato: gli invasi erano vuoti. Eppure non ci sono stati più fenomeni di siccità del passato. Non ci sono più state le emergenze.Ma i miglioramenti sono a tutto campo: abbiamo ammodernato la depurazione, internalizzando il servizio e per di più risparmiando 5 milioni di euro l’anno».
Cosa teme davvero dopo il provvedimento del governo?
«Due cose: gli apologeti del mercato e i pescecani. I primi non sanno di cosa parliamo: chi comprasse l’acquedotto pugliese non avrebbe concorrenti sul territorio. Di che mercato stiamo parlando?»
E i pescecani?
«In questo Paese dove tutti dimenticano i fatti, capita che un bel giorno un giovane analista di un’agenzia di rating cominci a declassare una società. Così magari le banche cominciano a tirare la corda. Ma la storia è andata diversamente: sono le agenzie di rating ad essere uscite malconce dalla crisi globale».
Avete creato un comitato per la difesa dell’acqua pubblica
«È un fatto di democrazia. Invece il governo procede senza nessuna discussione ».
06 novembre 2009
La lotta dei sindaci ribelli
di Roberto Rossitutti gli articoli dell’autore
Domenico Giannopolo è uno dei ribelli. Anzi degli «irriducibili», come li hanno definiti, tra il dispregiativo e il rassegnato. Uno di quei 100 sindaci, ma il dato è in divenire, che in Sicilia si stanno opponendo al processo di privatizzazione delle acque. In un modo semplice: non consegnando le chiavi degli acquedotti ai gestori privati. L’ultimo atto di ribellione lo scorso 23 ottobre. A Sant’Angelo Muxaro, in provincia di Agrigento. Il messo regionale ha trovato la porta del comune sbarrata da una decina di «irriducibili». Ed è tornato indietro. «Non so quanto potremo durare» spiega Giannopolo che amministra il comune palermitano
di Caltavuturo. Perché l’acqua privata in Sicilia è un affare troppo grande perché qualcuno si metta di traverso. Un affare, che nei prossimi trenta anni, smuoverà circa sette miliardi di euro. Dei quali 5 da spartire attraverso appalti e due da realizzare attraverso la semplice gestione. Soldi che stuzzicano l’appetito di Cosa Nostra.
Nella Regione il processo di privatizzazione è iniziato nel 2005. Il primo Ato (che coincide con i confini di ogni provincia) a finire tra le mani dei privati è stato quello di Enna. Poi a seguire tutti gli altri con la sola eccezione di Ragusa dove il processo di privatizzazione stagna. «L’assegnazione – spiega Giannopolo – è avvenuta con una logica spartitoria. Ad ogni gara si è presentato un unico raggruppamento di imprese”. Un concorrente, un vincitore, un pezzo di torta. Nel 2007 a Palermo vinse Acque Potabili
Siciliane. Una gara fasulla, censurata anche l’Antitrust nazionale chiedendo la revoca dell’appalto. Ad Agrigento invece a vincere fu la Girgenti Spa. Un consorzio di imprese capeggiate dalla discussa società Acoset (gruppo Pisante). In due anni di acqua privata la città ha visto lievitare il costo della bolletta. Ogni famiglia spende all’anno 445 euro. In Italia è un record (ad Arezzo, seconda in classifica, se ne spendono 386). Per che cosa poi? Per un servizio inesistente, molte zone della città durante la settimana rimangono a secco, la rete è un colabrodo.
In metà della Sicilia, poi, quasi il 40% dell’acqua captata da Sicilacque – l’ex Ente Acquedotti Siciliani controllato dalla francese Vivendi – non arriva nei rubinetti di casa. In compenso le tariffe si sono impennate. Da qui la ribellione e il braccio di ferro con la Regione. Che contro i comuni dissidenti ha mandato il commissario. Spesso con qualche conflitto di interesse sulle spalle. Come l’ingegnere Rosario Mazzola, al tempo stesso commissario per l’Ato di Palermo e consigliere per alcune delle società che controllano Acque Potabili Siciliane. La mano dura non è servita a niente. I comuni hanno resistito. Per evitare complicazioni la regione ha deciso sospendere il commissariamento fino al 31 dicembre. I sindaci sperano che si ridiscuta la privatizzazione. All’Assemblea regionale siciliana giace da luglio un disegno di legge di ripubblicizzazione. Andrebbe solo calendarizzato. Nel frattempo Caltavuturo, come molte altre città in Italia, ha cambiato lo statuto comunale. Siccome nel nostro Paese non esiste una legge che fissa quali sono i beni a rilevanza economica. Il sindaco ha pensato di inserire la dicitura: «l’acqua non rientra tra i beni di rilevanza economica». Basterà? «Non lo so, ma non voglio essere complice».
06 novembre 2009
di Bianca Di Giovanni Unità 6 Novembre 2009
23 Dicembre 2024