“Quando una persona capisce i motivi per cui adottare questi comportamenti e si apre a una certa visione del mondo, nessuna delle iniziative personali a difesa dell’ambiente costa fatica”. Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista a Luca Mercalli, climatologo e saggista italiano, noto al grande pubblico per la partecipazione al programma televisivo ‘Che tempo che fa’ e autore del libro ‘Prepariamoci’.
“Viviamo su un pianeta solo, l’ambiente non è qualcosa di isolato ed estraneo, ma è il luogo nel quale ci muoviamo tutti i giorni e serve alla nostra vita concreta”
Il ‘cambiamento’ si promuove dal basso o dall’alto? Altrimenti detto, per le urgenze che ha il pianeta è più efficace smuovere le coscienze delle persone o fare pressione sui decisori pubblici?
Non si può ignorare nessuna delle due modalità, bisogna lavorare su entrambe. È difficile ottenere risultati concreti contando soltanto sulla presa di coscienza dei singoli, e lo stesso si può dire quando si cerca di fare breccia in certi politici, come abbiamo visto di recente anche alla Conferenza sul clima di Durban. Visti i tempi che corrono, dobbiamo perseguire entrambe le strade.
L’efficienza e l’esistenza stessa delle sovranità nazionali s’indebolisce sempre di più. Quali organismi di governo sovranazionali immagina per gestire il rischio ambientale e le problematiche globali a esso connesse?
Non sono un esperto dei temi della governance, ma la mia sensazione è che queste strutture in buona parte esistano già, basterebbe farle funzionare meglio. A un livello sovranazionale c’è un’agenzia delle Nazioni Unite che conosco bene, l’Unfccc, ovvero la Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici, che imposta la discussione sul clima a livello generale. Poi abbiamo l’Ipcc, che segue gli aspetti scientifici, il Protocollo di Kyoto, un importante strumento di lavoro, anche se sta andando a scadenza, e l’insieme delle Conferenze sul clima, di cui quella di Durban è stata la diciassettesima.
Come si vede le strutture esistono già, basterebbe ascoltarle. Dopodiché è chiaro che gli egoismi nazionali spesso prevalgono. Forse accadrà qualcosa che assomiglia all’odierno governo Monti in Italia: un supergoverno di tecnici che commissarierà le diverse politiche nazionali, che faticano troppo a rispondere all’emergenza climatica. Magari un giorno dovremo arrivare a questo, anche se personalmente, a proposito di egoismi nazionali, temo piuttosto il rischio dei conflitti.
Qual è il livello d’impegno individuale che ciascuno dovrebbe pretendere da se stesso nella direzione di una maggiore sostenibilità?
Ciascuno dovrebbe occuparsi delle sorti del pianeta in ogni suo gesto quotidiano. E per arrivarci dovrebbe essere sufficiente il comprendere davvero ciò che ci siamo detti fin qui: viviamo su un pianeta solo, l’ambiente non è qualcosa di isolato ed estraneo, ma è il luogo nel quale ci muoviamo tutti i giorni e serve alla nostra vita concreta, così come le risorse.
Naturalmente non possiamo aspettarci che, su sette miliardi di persone, tutti divengano informati e sensibili rispetto a questi temi, ci saranno sempre gli ignoranti e gli avidi, che avranno un atteggiamento predatorio nei confronti delle risorse del pianeta. Ma è proprio a quel punto che dovrà intervenire la politica. È il modello dei paesi del Nord Europa, dove la sensibilità diffusa e la politica producono effetti virtuosi.
Qual è il livello di impegno che lei chiede a se stesso nella sua quotidianità? Quanto è fatica e quanto è piacere?
Quando una persona capisce i motivi per cui adottare questi comportamenti e si apre a una certa visione del mondo, nessuna delle iniziative personali a difesa dell’ambiente, e dunque della propria qualità di vita presente e futura, costa fatica. Al contrario procurano vantaggi pratici e la soddisfazione di conformarsi a un’etica cosmica.
Innanzitutto a casa mia, dove vivo con la mia compagna in Val di Susa, abbiamo tecniche di gestione delle energie estremamente efficienti. La casa è isolata termicamente, come dovrebbe fare chiunque voglia i venti gradi d’inverno senza buttare via calore attraverso tetti, muri e finestre. Certo, investo dei soldi e del lavoro all’inizio, ma mi ritrovo con un’abitazione che mangerà meno soldi in futuro e più confortevole.
Dopodiché, una volta che ho ‘tappato i buchi’, ho cambiato la fonte energetica, passando da fossile a rinnovabile: ho installato pannelli solari, sia fotovoltaici sia per l’acqua calda, con i quali estraggo tutta l’energia di cui ho bisogno nel corso dell’anno. Naturalmente sono sempre allacciato alla rete, perché nei giorni di pioggia o nebbia ho ancora bisogno di ricevere energia dall’esterno, però nel corso dell’anno il saldo è positivo. E, denaro a parte, mi mette anche al riparo dalle scarsità energetiche del domani, rendendomi più autosufficiente.
Lo dico per chiarezza, perché oggi si può risolvere l’ottanta per cento della questione energetica riguardante una casa, non il cento per cento: in parte dobbiamo ancora contare sui metodi tradizionali. Ma con investimenti e ricerca negli anni tenderemo ad affrancarcene completamente.
Poi ho un orto, non immenso ma produttivo, che mi porta a una dieta prevalentemente vegetariana, anche se vegetariano non sono. Però consumo carne in misura ridotta e ragionevole, mentre mangio verdure prodotte da me. Ho realizzato una cisterna per l’accumulo dell’acqua piovana destinata all’irrigazione. Ovviamente i rifiuti organici di cucina servono per produrre concime e non gravano sulla raccolta rifiuti. Ciò che resta, lo sottopongo ad attenta differenziazione.
Dopodiché ho anche cercato di cambiare il mio rapporto con gli oggetti e con il consumismo, ed è stata una bella sfida psicologica.
È stato un ritorno all’essenzialità, che non vuol dire per nulla miseria, ma rifiuto della pubblicità e di un modello sociale nel quale mi riconosco sempre meno, quello del “grande e potente”, a cui preferisco “piccolo ed efficiente”. È sufficiente avere un set di oggetti necessari, dopodiché si può lasciare perdere il superfluo. E spesso il godimento degli oggetti superflui può essere ben soppiantato da piaceri immateriali: la cultura, la lettura, la musica, il convivio… Ne guadagno io come persona, ma anche l’ambiente e persino il portafogli, perché mantenere il superfluo costa tempo e denaro.
Lei spiega di ricevere ogni giorno, in media, cinque inviti ai più svariati convegni e incontri. Da chi provengono questi inviti? Nota una diffusione dell’interesse nei confronti dei temi della sostenibilità?
Sì, c’è stato un aumento dell’interesse, l’ho notato in particolare nell’ultimo anno. Il presupposto è che ho ottenuto una qualche notorietà con la televisione nei nove anni che presenzio a Che tempo che fa. Ma se gli inviti che mi arrivavano erano due o tre alla settimana qualche anno fa, oggi sono cinque al giorno. Sono più di 1.500 in un anno, naturalmente io non posso andare ovunque, ne accetterò uno o due alla settimana. Ma la gente sembra interessata a saperne di più.
Possiamo dividere i soggetti che m’invitano in tre categorie: associazioni e comitati con una qualche motivazione ambientale, spesso legata alla cementificazione; poi comuni e assessorati di vario genere, solitamente di piccole dimensioni e dotati di una certa sensibilità per le tematiche della sostenibilità; infine ci sono gli inviti con finalità didattiche, spesso da parte di scuole. Talvolta mi succede anche di essere invitato in ambiti nei quali fino qualche anno fa sarebbe stato impensabile, come è stato il caso recente di un incontro a Milano con un gruppo di dirigenti d’azienda lombardi.
Lei si divide fra articoli, libri, incontri pubblici e i cinque minuti settimanali di grande ascolto televisivo da Fabio Fazio. In un mondo di scettici e disattenti, per ignoranza o professione, quali sono secondo lei le chiavi comunicative per ottenere ascolto?
Innanzitutto bisogna cercare di avere un’autorevolezza scientifica. Negli ultimi anni è circolato un ambientalismo un po naif, la cui buona volontà non è stata sufficiente per rendere un valido servizio alla causa. Invece occorre che ciascuno si spenda nel proprio settore, dimostrando competenza. In secondo luogo direi che c’è domanda di soluzioni. Non dobbiamo presentarci solo come annunciatori di disgrazie, ma dobbiamo anche spiegare che cosa si può fare per risolvere i problemi. Questa è un’esigenza che avverto spesso in chi mi ascolta. E ancora di più credo sia utile parlare anche attraverso la propria esperienza personale, potere raccontare ciò che si è sperimentato sulla propria pelle, perché questo conferisce credibilità. E porta anche a spiegare le cose con chiarezza maggiore, perché solo chi ‘fa’ sa poi spiegare bene.
La scienza oggi è piuttosto trascurata dal sistema mediatico e nell’interesse comune. Perché succede, secondo lei? Come può recuperare una centralità culturale?
In realtà vedo una situazione molto variegata: ci sono contesti nei quali la scienza e la tecnologia vengono venerate come delle divinità che possono risolvere tutto; invece ci sono casi nei quali vengono ignorate. Direi che in fondo prevale l’opportunismo. Se ti viene promesso un miracolo tecnologico in qualsiasi settore siamo tutti pronti a crederci, ma se la stessa scienza si azzarda a mettere un paletto rispetto a una scelta politica, allora non va più bene. Eppure la scienza è per sua natura basata su un metodo rigoroso e verificabile.
Nel frattempo abbiamo smarrito anche il senso di rispetto e ammirazione che la natura da sempre ha suscitato. Come si reinsegna a un cittadino a guardare un tramonto?
Credo che sia fondamentale passare anche da questa dimensione per raggiungere la consapevolezza di cui parlavamo: oltre ai dati e alla razionalità, c’è un aspetto di sintonia immediata con la natura che facilita la diffusione di una sensibilità nuova. Sarebbe una riscoperta importante, che andrebbe oltre ogni mediazione della razionalità: è come quando t’innamori di una donna, non servono dati e misure, ti capita e basta, e poi te ne prendi cura.
Ancora cinquant’anni fa era viva questa meraviglia per il mondo reale: è una perdita recente. Un ruolo in questo recupero potrebbero averlo la scuola e l’educazione, che dovrebbero metterci più spesso a contatto con la natura. Un’importanza l’hanno anche le nuove tecnologie, i tanti schermi portatili di cui siamo circondati, che spesso finiscono proprio con l’alienare i giovani segregandoli in mondi artificiali e rendendo ancora maggiore il distacco dal mondo reale. Invece, proprio i nuovi mezzi di comunicazione potrebbero essere reimpiegati nel tentativo di riavvicinare le persone alla natura.
Io posso guardare un tramonto di persona, ma tutto sommato internet mi consente anche di vedere lo stesso tramonto in altri dieci posti nel mondo. Ci sono poi tante discipline sociali che ci possono riavvicinare alla natura: filosofia, poesia, letteratura, psicologia sociale. La riscoperta della natura può passare da un concorso di elementi.
Ormai le trasformazioni sociali, come quelle ambientali, avvengono con una rapidità inedita. Trova più ragioni per essere pessimista od ottimista per il futuro?
Proprio perché i fenomeni cambiano così velocemente non ho una posizione precisa, ma giudico di giorno in giorno quello che vedo. La prospettiva di oggi mi renderebbe pessimista. L’ottimismo lo recupero proprio se penso che le trasformazioni sociali possono essere rapidissime: se riusciamo a fare passare questi messaggi, oggi siamo anche dotati di tutti gli strumenti per ottenere buoni risultati in poco tempo.
Che cos’è per lei il ‘cambiamento’, a livello personale e sociale?
Il cambiamento l’abbiamo sempre praticato nella nostra storia di specie umana. E’ l’adattamento a condizioni ambientali che variano. O riusciamo ad adattarci, o soccombiamo: il cambiamento è una necessità allorché le condizioni del contesto mutano.
Quale cambiamento augura a se stesso e al mondo? E quale invece teme?
Mi auguro un cambiamento basato sulla razionalità, ma anche sulla bellezza. Dovremmo cambiare tenendo assieme sia la parte razionale che quella spirituale.
Ciò che invece temo è che si verifichi un cambiamento nel senso del conflitto. Il cambiamento è una certezza, noi non possiamo opporci quando questo arriva da pressioni così forti che provengono dal mondo reale. Il cambiamento, dunque, ci verrà imposto. Se lo gestiamo noi, potrà essere dolce e ne decideremo noi le dinamiche, ricorrendo alla mente e al cuore. Se invece continueremo a opporci, temo che assumerà la forma della guerra e della barbarie.
di Stefano Zoja- Il Cambiamento
24 Dicembre 2024