Il "Porta a porta" di San Francisco (USA)

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Riciclare è un’arte. E per chiarire che non si tratta dell’ennesima, pigra metafora pubblicitaria alla Norcal Waste Systems ti fanno entrare in una galleria, ammirare le opere e conoscere gli artists in residence, creativi a busta paga con il compito di cavare sangue estetico dall’immondizia. Sculture di lamiera neo-giacomettiane, serie fotografiche sui cromatismi di un’arancia che va a male, vasi fatti con vetrine rotte. Fuori si sentono le grida dei gabbiani che spolpano, con certosina ferocia, i rimasugli di cibo dalla spazzatura non riciclabile. “Non dovrebbero essercene” ringhia il portavoce Robert Reed, capelli a spazzola e sguardo che fa sbiadire un addestratore di West Point, “gli alimenti devono andare nel bidone verde non in quello nero. Ma gli esseri umani sbagliano”. In verità qui poco e sempre meno. Al punto che, con una quota del 70 per cento, San Francisco è – nella categoria metropoli – la capitale mondiale del riciclaggio dei rifiuti.
Non c’entra necessariamente l’ambientalismo e la mania macrobiotica, nipoti della controcultura love and peace anni ‘70. Il record è più prosaicamente figlio di un senso civico non innato (sul versante cittadini) e di un beninteso capitalismo (sul lato dell’azienda incaricata di raccolta e cernita). «Ci sono 600 mila piccoli cassonetti in città: blu per plastica, metalli e carta, verde per l’organico e nero per il resto». Li trovi se non sotto ogni palazzo, ogni due. Niente assurdi orari di raccolta e tutto il riciclabile va nello stesso sacchetto («se è complicato non può funzionare»).
I camion della Norcal passano ogni mattina, ingollano il rusco come la balena di Jona e lo risputano in uno dei due stabilimenti nella prima periferia cittadina. L’«impianto di recupero materiali» del Pier 96, con vista sull’oceano, è costato 38 milioni di dollari a cui vanno aggiunti i costi di gestione. Metà l’azienda li recupera rivendendo i materiali a chi li ricicla. Il resto viene coperto dalla tasse, 25 dollari al mese, dei contribuenti. Ma a differenza di Napoli, dove la concessione a Fibe-Impregilo le garantiva tanti più soldi tante più ecoballe produceva (tagliando ogni incentivo alla differenziata), qui vale esattamente il contrario. Così, di anno in anno, più virtù significa migliori fatturati.
In questo enorme hangar arrivano i camion, tappezzati sulle fiancate da grandi immagini didascaliche, che fanno capire come gli avanzi della cena possano diventare concime per le vigne della Napa Valley. Sembra niente ma la voce di Reed si impenna: «È un modello, questo di spiegare visivamente il rapporto di causa-effetto, che ci hanno copiato tante altre città. Prima era la campagna che dava alla città, ora noi invertiamo il ciclo e restituiamo il favore».
Insiste sulla comunicazione: «Sui cassonetti ci sono anche le immagini di cosa ci va dentro e le spiegazioni in 16 lingue diverse». Non si può pretendere che un vietnamita o un pachistano appena arrivati capiscano dove mettere cosa. Però se non lo fanno dopo aver visto le figurine non hanno alibi e gli addetti alla raccolta segnalano i condòmini inadempienti e contattano gli amministratori. Nel contempo alla Norcal hanno reclutato un sacco di star per spiegare perché riciclare è bello. E dal laboratorio artistico passano circa 4000 bambini all’anno per capire perché è importante.
L’alleanza tra uomini e macchine è strettissima. I materiali rovesciati dalle vetture su un nastro trasportatore vengono incolonnati verso una selezione automatica. Il primo bivio è costituito da un enorme magnete che attira a sé i materiali ferrosi. D’incanto lattine e simili prendono un’altra strada. Restano carta e plastica a ballare su nastri inclinati dove dei dischi rotanti, sfruttando in maniera incomprensibile ma efficace la gravità, spingono in alto le cose leggere lasciando cadere in basso quelle pesanti.
I pezzi metallici sopravvissuti vengono espunti con un meccanismo, l’eddy current separator, che fa letteralmente saltare alluminio e rame, indirizzandoli verso un’altra linea di smaltimento. Però ci sono vetri bianchi, verdi e ambrati. Idem per le plastiche. E la carta spessa e plastificata che fine fa? Sulla sintonizzazione fine intervengono gli uomini. Ogni addetto, chino sul nastro come un viaggiatore ansiosamente in attesa del proprio bagaglio, ha un bersaglio specifico. C’è chi prende le bottiglie di birra e le fa cadere in un’apposita botola, chi separa i libri rilegati dai fogli da ufficio. Alla fine i diversi affluenti del fiume del pattume trovano uno sbocco separato nel delta dell’impianto.
Carta, plastica e lattine vengono compattate in cubi da un metro e mezzo. I muletti li impilano per poi trasportarli nei container che i tir porteranno via, verso il riciclaggio vero e proprio. «Ogni giorno» calcola Reed «entrano in media 650 tonnellate di rifiuti ed escono 32 containers pieni di balle di carta, lattine, plastica. Un quarto resta negli Usa, il resto va verso i paesi asiatici».
Il compost ha un altro indirizzo. Viene prodotto in un impianto vicino al Monster Park. Se non bastasse la segnaletica per trovarlo si potrebbe seguire i gabbiani oversize, nuovi avvoltoi della rumenta. È qui che finiscono anche i rifiuti straordinari, mobili, biciclette, lavatrici: tutto quanto non può essere riciclato ma magari smontato e riutilizzato.
Ed è questa la tana degli artisti-residenti. Bill Basquin, che da contratto deve trascorrere qui almeno 20 ore alla settimana, ci mostra orgoglioso una strisciata di fotogrammi sulla metamorfosi degli escrementi di elefante («ce li porta lo zoo»). Sta preparando una nuova installazione. Una grossa scatola di legno e plexiglas, tutto di risulta, dove il visitatore potrà entrare e accomodarsi su un letto di compost di due mesi, circa a metà ciclo.
Dice: «È un modo per rientrare in contatto con la natura, sentire il calore che sprigiona, l’odore». Un barattolo di «Merda d’artista» di Piero Manzoni è stato battuto da Sotheby’s a oltre 120 mila euro. Prima di ghignare, rifletteteci.
Tratto da Repubblica.it