Per la prima volta il fratello di Peppino è entrato nell’appartamento di Cinisi dove viveva il capomafia: “Trent’anni ho aspettato – sussurra – in questo salone Gaetano Badalamenti avrà deciso la morte di mio fratello”. Ma è allarme sui beni confiscati: alle aste i boss possono riacquistarli
PALERMO – Quando il sindaco di Cinisi apre la porta di casa Badalamenti, Giovanni Impastato corre su per le scale, fino al grande salone dove un tempo il padrino della Cupola teneva udienza. “Trent’anni ho aspettato – sussurra – in questo salone Gaetano Badalamenti avrà deciso la morte di mio fratello Peppino”. E continua a guardarsi attorno, anche se non è rimasto più nulla nel salone delle feste e dei summit: “Mi sembra ancora di vederli – dice Giovanni Impastato – i mafiosi che ridevano al balcone e i politici che arrivavano da Palermo”.
E mentre lo ripete, va ad aprire le persiane: “Ma adesso la casa di Badalamenti è stata confiscata ed è stata affidata dal Comune all’associazione che porta il nome di Peppino. Qui si trasferirà anche la biblioteca comunale”. Dal balcone dove si affacciavano i potenti di Sicilia, Giovanni Impastato guarda adesso cento passi oltre, dove c’è la casa di Peppino: “È come se quei cento passi non ci fossero più – dice – è come se Peppino e nostra madre Felicia fossero qui”.
Eccola, la casa simbolo della mafia che negli anni Settanta era già arrivata al culmine del potere. È nella strada principale di Cinisi, corso Umberto 183. Una palazzina a due piani che Falcone e Borsellino avevano sequestrato nel 1985. Ma ci sono voluti altri venticinque anni per la confisca: venerdì, il sindaco Salvatore Palazzolo ha consegnato le chiavi della casa a Impastato. “Segno importante di questi tempi – dice Elio Collovà, amministratore giudiziario di beni sequestrati alla mafia – con la nuova legge c’è il concreto rischio che i padrini possano riacquistare all’asta i propri beni ancora non assegnati”. L’allarme è sottoscritto da un gruppo di amministratori siciliani.
Il segno della ricchezza e del potere di don Tano è appena oltre la porta d’ingresso: è la scala in onice che apre al piano nobile. “Ci sono saliti giovani mafiosi come Bernardo Provenzano e Luciano Liggio”, ricorda Giovanni. I mobili che arricchivano la casa sono stati portati via quindici giorni fa da alcuni operai che sembravano avere molta fretta. Ma alla fine del trasloco, hanno anche spazzato per terra. Non c’è un solo foglio di carta in giro.
Non c’è neanche la corrente elettrica a casa Badalamenti. Bisogna aprire le finestre per addentrarsi da una parte all’altra della casa. Saranno 250 metri quadrati per ognuno dei tre piani. “Ricordo di averci giocato da bambino in queste stanze – dice Impastato – ci portava nostro padre”. In terrazza potevano salire solo in pochi, per assistere alla gara dei cavalli nel corso.
All’ultimo piano, sono rimasti i segni di un inizio di ristrutturazione. Il padrino sperava ancora di ottenere un sconto sulla condanna americana. Erano i giorni in cui accettava di fare un verbale con il maresciallo Antonino Lombardo e ammetteva di essere stato confidente dell’Arma. Il 5 marzo 1995, il maresciallo si è sparato un colpo di pistola. E sono scomparsi i suoi appunti. Badalamenti è rimasto nelle carceri americane, dove è morto nel 2004.
Dice Giovanni Impastato: “Chiedo che le indagini sulla morte di Peppino vengano riaperte. Bisogna fare luce sui depistaggi che hanno favorito Badalamenti”. Un’inchiesta de L’Espresso ripercorre in questi giorni le tappe del mistero. Sono racchiuse in una domanda: quali relazioni intratteneva Badalamenti con pezzi delle istituzioni?
SALVO PALAZZOLO Repubblica
22 Novembre 2024