Le nuove discariche prodotte dal bisogno di caffé in cialda
Diego Barsotti
LIVORNO. Una volta c’era la moka. Simbolo, se vogliamo, anche di un certo ambientalismo, vista l’altissima percentuale di materiale riciclato che compone le macchinette che soprattutto dal dopoguerra in poi hanno accompagnato il lungo sogno di benessere dell’italiano medio.
Poi, qualche anno fa, sono arrivate le macchinette elettriche, via via sempre più metallizzate, sempre più di design sempre più status symbol (che presuppone anche un ciclo di vita più breve) che non possono mancare nelle liste di nozze delle nuove famiglie, così come nelle famiglie più vecchie, che finalmente possono permettersi un caffè buono come quello del bar.
Ma la moka a ben guardare era (è?) una tragedia per il mercato: praticamente indistruttibile, eterna a patto di sostituire ogni tanto le guarnizioni e al limite il filtro. Per scardinare il mito della moka sono serviti anni si strategie di marketing del più alto livello, supportate da investimenti pubblicitari ciclopici con siparietti in prima serata arrivati a scomodare perfino il padreterno e tutti i santi intorno.
Ancora la malattia della moka non è stata debellata, ma la strada per farla divenire roba da collezionisti è stata presa. E la tendenza ora è quella di usare la stessa strategia delle stampanti: così come una stampante la puoi pagare 20 euro e le cartucce per ricaricarla ogni volta costano il doppio, allo stesso modo le macchine elettriche del caffè sono entrate prima negli uffici e poi anche nelle nostre case in comodato d’uso, gratuite, a patto di acquistare modiche quantità di caffè inserite in generose porzioni di plastica colorata umanizzate in nomignoli assurdi, a prezzi che se considerati a peso (almeno 50-60 euro al chilo), farebbero gridare al furto ma che invece l’inoculazione subliminale delle pubblicità, rende invisibili.
Insomma, grazie anche a questo nuovo bisogno creato dall’industria della pubblicità per tutta una lunga serie di altre industrie (quelle che compongono le filiere della cialda di caffè, dall’estrazione delle materie prime fino allo smaltimento finale), le capsulette di caffè che hanno preso i nomi dai cugini dei sette nani impazzano nelle nostre discariche (le cialde di stoffa sono diventate quasi introvabili, per amatori, ma avevano se non altro il merito di non contenere plastica e di poter essere raccolte con l’organico) insieme alla confezioncina sottovuoto in alluminio e insieme allo scatolone di cartone che ne contiene qualche decina. E contemporaneamente a tutto ciò la Bialetti ha annunciato nei mesi scorsi che delocalizzerà all’estero la sua storica fabbrica di macchine moka…
Del resto questo è solo uno dei tanti esempi della direzione che prende il mercato quando viene lasciato libero di agire. Un’altra testimonianza possiamo coglierla nella pagina pubblicitaria che un’azienda «leader nel mercato nazionale della produzione di preforme e contenitori in Pet» ha comprato oggi sul Giornale. In Italia si sa, a differenza di altri Paesi europei, il pet riciclato non può essere utilizzato per diventare un nuovo imballaggio per uso alimentare. Questo significa che tutte le nostre bottiglie di plastica – quando e se vengono riciclate – si trasformano in maglie, in arredi, pallet, ma non in nuove-vecchie bottiglie di acqua minerale. Ed è anche per questo che in tutta questa pagina pubblicitaria non viene fatto alcun accenno ad eventuali virtù ecologiche dell’azienda, che evidentemente non interessano (ancora?) i grandi produttori di acqua e bevande, che invece quando si rivolgono ai loro clienti (i consumatori finali) millantano la loro grande sensibilità ambientale consapevoli di quanto oggi il greenwashing renda.
Il filo rosso che unisce l’acqua minerale in pet e le capsule di caffè non è uno solo: c’è quello della plastica, quello dell’usa e getta / obsolescenza programmata, c’è infine la leva perennemente alzata della pubblicità come arma di convinzione di massa.
Fonte www.greenreport.it
27 Dicembre 2024