Le falle del sistema economico finanziario mondiale si sono intrecciate con l’incompiuta integrazione europea. La soluzione esiste
Nell’ultimo anno si sono intrecciate due crisi: quella del sistema finanziario e monetario mondiale e quella del sistema di integrazione europea. Parte da questa premessa Antonio Tricarico, coordinatore della Campagna per la riforma della Banca mondiale (www.crbm.org), per ricostruire le radici e le conseguenze del periodo che stiamo vivendo.
Qual è stato l’elemento detonatore della crisi?
Il “contagio” derivato dalla crisi del debito della Grecia. Nel 2010 è stato proposto un pacchetto di salvataggio significativo in varie forme con misure di austerità che non hanno dato frutti. A metà del 2011 si è cominciato a discutere del default, cioè dell’incapacità “tecnica” di rispettare le condizioni con le quali la Grecia si è indebitata, convincendo le banche, che detengono la parte più consistente del debito, ad accettare di vedere non riconosciuto anche fino al 50% del proprio credito. Questa soluzione, su cui si sta ancora negoziando, ha introdotto la possibilità concreta di andare verso la “ristrutturazione” di parte di debito. Ristrutturare significa raggiungere accordi per modificare le condizioni originarie dei prestiti per alleggerire gli oneri. La Germania non ha voluto che si prendessero altre strade, come il salvataggio con i soldi della Banca centrale europea. La paura che l’insolvibilità si estendesse ad altri Paesi ha provocato il contagio, manifestatosi ad agosto.
L’indebitamento degli Stati europei sta crescendo a causa della recessione economica: le entrate diminuiscono e i tagli non sono sufficienti. Il sistema bancario detiene almeno la metà del debito pubblico e la crisi lo ha reso più vulnerabile. Le banche continuano a perdere valore e devono fare soldi speculando per non andare in bancarotta.
La finanza speculativa continua a crescere.
Ci sono strumenti della finanza che a livello internazionale cercano di fare due cose: generare nuovi titoli su cui speculare per raggiungere maggior profitto e accumulare capitale. Il cuore della finanziarizzazione è commerciare “denaro rischio” o prodotti collegati. I pericoli sono enormi perché questa crisi continua a propagarsi con il rischio di un collasso più sistemico. Gli strumenti finanziari si dividono in due grandi categorie. La prima riguarda i cosiddetti titoli (bond), i quali sono essi stessi commerciabili su mercati secondari. La seconda sono i prodotti “derivati”: sono contratti -a differenza degli altri sono titoli di carta che hanno un valore fissato- il cui valore deriva da quello di un altro titolo di carta. I prodotti derivati sono nati per assicurare il rischio, ma sono talmente commerciati che siamo al paradosso di avere un’economia “assicurata” fino a 12 volte. I Cds (credit default swap) sono l’esasperazione: contratti di assicurazione che scommettono sul fallimento di altri. Nei due mercati ci sono vari attori finanziari fra quelli non bancari. Fra questi gli “hedge fund”, fondi speculativi specializzati in scambi di breve termine, con indebitamento sul lungo termine.
Qual è il nesso con la crisi economica reale?
Le banche stanno perdendo valore e sono sulla soglia della bancarotta. Non riescono a mettere in circolazione la moneta e hanno un tale indebitamento che non possono che avere atteggiamenti iper speculativi e rischiosi per trovare il denaro. Ma nel mercato attuale non riescono a farlo e perdono ancora più valore. Tutto questo comporta che, ad esempio, i prestiti vengano dati difficilmente anche ad aree produttive e ricche come l’Italia del Nord.
L’Italia come ne è stata coinvolta?
L’Italia non ha dovuto iniettare capitale pubblico nelle banche come è accaduto in altri Paesi a seguito delle conseguenze scatenate dalla crisi dei mutui subprime, generando un forte debito pubblico. Il processo è stato diverso: si è deciso di tassare poco i patrimoni e non è stata introdotta una seria riforma fiscale. Il macigno del debito, già pesante, si è aggravato con la crisi economica che si è diffusa per tutti in Europa. In assenza di credito gli investimenti sono diminuiti, l’economia ha rallentato, è arrivata la recessione, le entrate degli Stati sono calate ed è cresciuto l’indebitamento. Con un sistema finanziario totalmente fuori controllo, l’integrazione europea ha generato ancora più squilibri economici. Gli operatori finanziari hanno iniziato a speculare intorno alle diversità di un sistema ingabbiato nei parametri di Maastricht, insinuandosi attraverso la crisi del debito.
Cosa sono i “mercati” e perché generano delle tempeste?
Sono camere di scambio di titoli finanziari regolamentati da un luogo fisico che ha alcune regole, come le Borse. Ma la gran parte degli scambi di titoli avviene fuori dalle Borse stesse. La mole di questi scambi è stratosfericamente più grande rispetto a quella rappresentata dalla transazione di beni e servizi che si vive ogni giorno. È controllata da giganti troppo grandi per fallire e per essere regolamentati da qualsiasi governo. Un oligopolio che si muove come un branco di elefanti in una cristalleria. Per questo ci sono tempeste e non solo singoli attacchi speculativi. Se si pensa che una dozzina fra fondi e grandi banche di investimento controllano più della metà delle transazioni a livello mondiale, si capisce quali conseguenze possono avere i loro movimenti.
Ma l’euro non era l’ombrello che rendeva tutti più sicuri?
Il grande beneficio dell’euro era che permetteva agli Stati di non indebitarsi più con tassi insostenibili. Ma questo fattore ha acuito le differenze, generato squilibri interni, reso la Germania dominante e capace di dettare le condizioni. I mercati finanziari hanno letto il momento in questo modo: esiste un’unica moneta, ma non un’unica economia. Si sono differenziati i tassi di interesse ed è nato lo spread, cioè la differenza fra i tassi di interesse di una stessa area monetaria.
Perchè lo spread è così importante per comprendere la situazione?
È il sintomo del problema, come la temperatura corporea. Il valore dell’economia italiana è inferiore a quello dell’economia tedesca e il valore della moneta è unico per entrambi. Nel momento in cui esso non corrisponde all’economia reale, l’interesse dell’indebitamento è la cartina di tornasole di quanto vale l’economia stessa. Così si crea una competizione nell’indebitamento, specialmente in una fase di crisi come questa dove tutti i governi cercano risorse.
Concentriamoci sulla crisi del debito italiano.
L’Italia non ha più un sistema produttivo in grado di far pagare il debito allo Stato attraverso le tasse. Per far quadrare i conti, e restare nei parametri europei, ci si deve indebitare di più. Per uscirne non funzionano più i meccanismi come quello studiato dal premier Mario Monti: sono basati sull’austerità, la diminuzione del costo del lavoro, la maggiore produttività per essere più competitivi e produrre per esportare. La crescita, secondo questo approccio, dovrebbe essere finanziata dal sistema bancario. Che però è in crisi. Una situazione insostenibile anche perché l’Italia non ha la capacità economica e produttiva per sostenere gli interessi. Dovrebbe tornare a crescere a tassi del 4-5%. Poi si alimenta un circolo vizioso: chi ha già rendite finanziarie accumulate ora reinveste sul debito pubblico con tassi più alti. È un continuo meccanismo di estrazione di ricchezza pubblica che passa su rendite finanziarie private. Situazione, tra l’altro, che crea il clima favorevole per dare ai privati ciò che è pubblico con nuove privatizzazioni.
Allora non c’è soluzione alla crisi del debito italiano?
Prima o poi dovrà essere ristrutturato. L’Italia ha vissuto e sta vivendo una fuga di capitali imponente. Se la ricchezza privata non viene riportata sotto una gestione di interesse pubblico va all’estero e si dirige soprattutto nei Paesi emergenti. Chi ha i soldi in Italia non investe, se ne va altrove. Sta svanendo quella che era una caratteristica tutta italiana: un forte risparmio dei cittadini e un sistema bancario, magari consortile e consociativo, legato al tessuto produttivo.
Le azioni da fare subito.
Serve un’azione culturale e politica: invitare tutti a riconoscere, dai talk show ai mercati, che si può andare in default, e di conseguenza avviare il processo di ristrutturazione del debito. Secondo: le banche italiane dovrebbero essere nazionalizzate, ovvero con un’amministrazione controllata e una proprietà pubblica, quanto meno per un periodo transitorio. Si creerebbe maggiore sicurezza e possibilità di far girare risorse per l’economia. Poi mettere al bando i prodotti finanziari di cui abbiamo parlato, e tassare le transazioni finanziarie. Infine, rivedere lo Statuto costitutivo della Bce e il Trattato europeo, indicando che, oltre al controllo dell’inflazione, l’obiettivo prioritario sia creare occupazione e limitare le dimensioni dei mercati finanziari.
Ma la vera soluzione è una questione economica: quale modello di economia vogliamo che tenga conto del limite delle risorse naturali?
di Giulio Sensi e Simona Piccato – Altreconomia
3 Dicembre 2024