NAPOLI – La differenza l’ha fatta il Fattore C. Ma l’origine è la stessa. Coincide, la genesi dell’emergenza, con la crisi dell’apparato industriale che aveva assicurato lo smaltimento dei rifiuti organici e industriali. In Lombardia e in Toscana il corto circuito fu provocato dalla diossina e dalla progressiva, ma velocissima, chiusura delle grandi discariche che erano state al servizio delle fabbriche e delle concerie. In Campania, dieci anni dopo, dal riempimento dei grandi fossi comunali che avrebbero dovuto assicurare una discreta autonomia per un altro ventennio ma che invece furono colmati prima del tempo proprio dalle scorie che arrivavano dal Nord.
La differenza, dicevamo, l’ha fatta la camorra, che in Campania ha rallentato e poi bloccato la soluzione strutturale del problema che altrove è stato, invece, governato e irregimentato in appena cinque anni: dal 1985 al 1990. Cinque anni che hanno segnato irreparabilmente il destino ambientale delle province di Napoli e Caserta, raccontati da un imprenditore napoletano, Pietro Colucci, parte offesa e testimone in un processo – che va sotto il nome di «Operazione Artemide» – che si è chiuso con la condanna di tutti gli imputati.
Il racconto, marginale nell’economia del procedimento, è contenuto nelle motivazioni della sentenza. E ricostruisce, in maniera originale rispetto al punto di vista dei collaboratori di giustizia, la nascita delle ecomafie. Lui, che aveva ereditato dal padre l’azienda che raccoglieva i rifiuti tra Mondragone e Sessa Aurunca, nel 1984 aveva subito un’estorsione dal capozona mondragonese.
Rinunciò all’appalto in quel comune, conservò Sessa Aurunca ma poi, dieci anni dopo, lasciò anche quella zona. Al suo posto entrarono altri due imprenditori, Sarnataro e Barbieri, imposti dal capoclan Augusto La Torre. E furono questi ultimi a fare da apripista, qualche tempo dopo, alla Ecoquattro dei fratelli Michele e Sergio Orsi.
La storia di Pietro Colucci, dunque, è il prequel dello scandalo dei consorzi e dell’affare che ha travolto l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, l’ex ministro Mario Landolfi e uno stuolo di amministratori locali che avevano trasformato il consorzio di bacino Ce4 in un carrozzone dispensatore di soldi e di assunzioni, a beneficio della camorra e della politica. E vi compare un personaggio, Giacomo Diana (morto durante il dibattimento), che ha fatto da sponda necessaria e indispensabile ai trafficanti di veleni della prima ora. Gestiva, Diana, la discarica Bortolotto, a Castelvolturno: una montagna di spazzatura en plein air, naturalmente abusiva, che nelle sue viscere ha nascosto tonnellate di bidoni pieni di scarti di lavorazione delle concerie toscane.
È l’epoca in cui i Casalesi – Francesco Schiavone, Antonio Iovine, Francesco Bidognetti – entravano nell’affare in prima persona. La loro società, con sede in Toscana, si chiamava Ecologia 89. E in cui Nunzio Perrella, camorrista della zona flegrea, scopriva che il traffico di rifiuti era più redditizio del traffico di droga, stringendo un patto d’affari con Cipriano Chianese, avvocato con le entrature giuste in Regione e dei Servizi.
Colucci racconta il passaggio dalla fase artigianale a quella industriale della raccolta e dello smaltimento, transizione segnata da contenziosi amministrativi e proteste di piazze: perché in quei mesi erano iniziate anche le lunghe code di camion che arrivavano da mezza Italia e che lasciavano cadere immondizia e percolato in strada. Proteste che in tempi più recenti – l’emergenza del 2007/2008 – i Casalesi hanno addomesticato per proprio tornaconto, assicurando la pax sociale in cambio del monopolio dei trasporti e dello stoccaggio delle ecoballe.
«Per un lungo periodo c’è stata una discarica a Sessa che non mi ricordo da chi fosse gestita, ma era una discarica della città, quindi i camion sversavano in città. Questa discarica fu chiusa, perché nella fase di emergenza nazionale di Lombardia e Toscana, quando cominciarono a chiudere tutti gli inceneritori perché producevano diossina e quelle regioni non erano organizzate per ricevere i propri rifiuti, cominciarono a portare i rifiuti al sud.
Cominciò in quella fase l’area della criminalità organizzata legata al trasporto di rifiuti, trasporto talvolta lecito, talvolta illecito, che ha fatto storia, purtroppo. E quella discarica fu chiusa non perché avesse smaltito illecitamente, ma perché accettava rifiuti da fuori regione». Quindi, lo sversamento necessario nell’impianto di Diana. Aggiunge Colucci: «L’emergenza nazionale che ha riguardato tutto il comparto, dalla Lombardia alla Toscana… comincia nell’85/86 e dura fino al 1990, quando poi quelle regioni si organizzarono in proprio con impianti». E commenta: «Fu uno scandalo nazionale perché prima invasero il Lazio, poi la Campania, poi andarono in Puglia. Lecitamente.
In Calabria, invece, ci sono andati sempre, anche illecitamente. Lo ricordo perché come associazione (Assoambiente, che riunisce le imprese private aderenti a Confindustria che si occupano dell’igiene urbana, ndr) abbiamo studiato il fenomeno, ormai agli atti parlamentari della commissione di inchiesta sull’ecomafia. Questa vicenda ha coinvolto la Campania dall’86 al 1990, dal punto di vista ufficiale. Ufficioso, i rifiuti sono sempre arrivati, purtroppo, e le autorità hanno fatto di tutto per bloccarli, ma non sempre ci sono riusciti con celerità».
di Rosaria Capacchione – Il Mattino
23 Dicembre 2024